«Eravamo convinte che, nonostante le infinite difficoltà, saremmo potute diventare due donne indipendenti, padrone della nostra vita. Ognuna con un lavoro da amare e che potesse far progredire il nostro Paese, senza il pensiero e la paura di doverci sposare per forza e dipendere da un uomo. E invece ora i nostri sogni sono diventati all’improvviso irrealizzabili. Viviamo un incubo, aiutateci: non dimenticatevi di noi e di tutte le altre donne afghane». Hanno 14 anni Nilofar e Malalai (i nomi sono di fantasia) e le loro parole, i loro sguardi ti stringono il cuore togliendo il respiro. Gemelle, a quest’ora le due ragazze avrebbero dovuto essere in Italia, insieme alla loro famiglia, composta dalla mamma, una zia, un fratello adulto e altri sette bambini tra fratelli, sorelle e nipoti. Erano infatti stati tutti inseriti nelle liste italiane di evacuazione, ma a partire non ce l’hanno mai fatta: salvi per miracolo, si trovavano all’aeroporto di Kabul proprio nel momento dell’attentato kamikaze che il 26 agosto ha fatto oltre duecento morti, ponendo fine al ponte aereo per l’Italia. L’ostilità dei soldati americani ed inglesi prima, il caos seguito alla tragedia poi, hanno polverizzato in un istante la loro occasione di salvezza.
Le intervistiamo grazie a una videochiamata via Whatsapp: insieme a me c’è il fratello Ahmed, che vive e lavora in Friuli ormai da tempo. Anche lui, come molti, ha dovuto lasciare l’Afghanistan anni fa a causa delle continue minacce di morte talebane per aver collaborato con le forze Nato. Hanno occhi grandi e profondi queste due ragazze, occhi che tradiscono l’aver dovuto crescere in fretta e tutta l’amara tristezza per un futuro che sembrava possibile e che ora, invece, è sfumato. Raccontano che, dopo l’attentato all’aeroporto, sono scappate da Kabul per tornare nella loro provincia, da sempre controllata dai talebani: «Viviamo nascoste – spiegano –, le ritorsioni contro coloro che erano nelle liste di evacuazione, ma non sono riusciti a partire, sono terribili. Soprattutto se si tratta di donne. I talebani stanno andando casa per casa, le notizie che arrivano sono tremende: picchiano, rapiscono e uccidono senza la benché minima pietà».
Sogni infranti
Chiedo dei loro sogni. Nilofar, la più spigliata e loquace delle due, vuole fare la medica. Malalai invece – con un sorriso timido, ma pieno di luce – dice che ha sempre desiderato diventare giornalista. «Non è mai stato facile crescere qui – sottolineano –, proprio perché i talebani sono ostili all’istruzione e alla cultura, nelle scuole ci sono sempre stati continui attentati, le ragazze vengono rapite, le insegnanti prese di mira, ma tutto questo non ci ha mai fermate: nonostante i rischi, abbiamo continuato ad andare a lezione, perché per noi è importantissimo. Ora però è tutto finito, vorremmo proseguire gli studi, ma anche potendo, non ci verrà mai concesso di lavorare». «Ci riempie di gioia – aggiungono – sapere che invece, in altre parti del mondo, come da voi in Italia, le donne possono vivere nella libertà e diventare quello che desiderano. Vi chiediamo allora di non dimenticarci, di non lasciarci sole, di continuare a parlare di noi, a interessarvi di quel che ci accade. Fate sentire la nostra voce, qui è peggio di quel che potete immaginare. Non lasciate che ci annullino, aiutateci ad essere qualcuno. Aiutateci ad usare le nostre capacità per le donne che saranno dopo di noi».
Salvare i bambini
Fa capolino nel video la piccola Fauzia, nipote delle gemelle e figlia di Ahmed. Ha sette anni, un piglio deciso e lo sguardo vivace, le poniamo la più banale delle domande: «Fauzia, ti piace studiare?». «Certo – risponde –. Ma – rilancia – non lo sapete che qui c’è la guerra e non mi lasceranno più andare a scuola?». Intervengono anche la mamma e la nonna della piccola. Due donne forti, la prima ha 25 anni, la seconda 45. Ahmed mi racconta con orgoglio che sua madre ha tenuto testa più volte e senza paura ai talebani. Intanto, la più giovane delle due ci dice di aver perso le speranze di raggiungere l’Italia, ma aggiunge: «Vi imploro, fate venire da voi almeno i bambini, loro hanno tutta la vita davanti». «Cerchiamo di resistere – le fa eco la madre di Ahmed –, ma non so per quanto, manca tutto, acqua, cibo, medicine. Il bimbo più piccolo non mangia, è traumatizzato dai corpi straziati dei morti che ha visto in aeroporto dopo l’attentato. E non possiamo nemmeno andare da un medico. Trascorriamo i nostri giorni aspettando solo che vengano a sgozzarci».
Immobilità internazionale
In queste ore sono numerose le persone che si stanno mobilitando per questa ed altre famiglie: venerdì 3 settembre in piazza Matteotti a Udine, ad esempio, un centinaio le persone che hanno risposto all’appello a manifestare delle «Donne in nero». Ma le risposte che arrivano – soprattutto dai politici, anche del nostro territorio, con ruoli nazionali – sono laconiche e formali: «al momento non si può fare nulla», «vedremo», «faremo». E aggiungono: «Ora l’obiettivo è la massima assistenza alla popolazione afghana, a partire dalla “seconda fase”, su cui tutta la comunità internazionale si dovrà impegnare». Già, nel frattempo, nell’attesa della “seconda fase” c’è chi cerca – oltre ogni nostra immaginazione – di sopravvivere all’indicibile.
Una buona notizia giunge mentre il giornale sta andando in stampa; nella sua informativa al Senato, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha dichiarato: «C’è rammarico e forte preoccupazione per chi non è riuscito a partire dall’Afghanistan e la Difesa offre piena disponibilità per eventuali ulteriori operazioni di evacuazione dal Paese».
Pubblicato sull’edizione dell’8 settembre 2021 del settimanale diocesano di Udine «La Vita Cattolica»