Il ventennale dello scempio di Genova, con il suo carico di rabbia, dolore e sofferenza, mi ha lasciato addosso una sensazione particolare e sentimenti contrastanti. Da una parte, ho provato infatti sdegno per ciò che è accaduto vent’anni fa nel nostro Paese, quando fra la Diaz e Bolzaneto si consumò un massacro di corpi e di anime inermi e meravigliose che costituisce tuttora una vergogna senza alcuna giustificazione possibile. Dall’altra, l’avvicinarmi con rispetto, attenzione e profondissima passione civile alle storie e alle sofferenze delle vittime di quella mattanza mi ha messo addosso una voglia di combattere che non avevo mai avuto prima, almeno in questa misura. E soprattutto ha cambiato il mio modo di ragionare, di intendere e di affrontare la maggior parte delle questioni, a cominciare dal femminismo. A dire il vero, ha contribuito a questo mio cambiamento interiore anche la vicenda delle studentesse della Normale di Pisa che, nel giorno della laurea, hanno denunciato il modello liberista e iper-competitivo dell’università, spiegando con rara saggezza e maturità tutti gli aspetti che rendono questo sistema dannoso per la ricerca e nocivo per i rapporti umani. E poi c’è stata un’intervista, realizzata da Federica Merenda, una giovane e validissima ricercatrice della Sant’Anna di Pisa, che per l’ultimo numero della rivista AREL, dedicato al tema della RIVOLTA, ha avuto un lungo colloquio con l’associazione Non una di meno. Ebbene, negli anni scorsi ero stato molto critico nei confronti di quest’universo, ritenendolo eccessivamente feroce nelle rivendicazioni, a tratti estremista e persino un po’ paranoico. Poi sono intervenute le scene del film Diaz, i racconti degli orrori di quella notte cilena di vent’anni fa, le ricostruzioni di un abisso che è quasi impossibile descrivere a parole ed ecco che l’intervista di Federica, improntata alla costruzione di un femminismo integrale, quasi un manifesto, mi ha fatto scattare dentro una molla significativa. Mi sono reso conto, difatti, che sbagliavo alla grande e che come invochiamo l’ecologia integrale a proposito dell’enciclica ambientalista di papa Francesco, così dobbiamo invocare un femminismo integrale e non settario per connettere i temi del rispetto delle donne e dei migranti, della piena parità salariale e di genere, della lotta contro ogni forma di violenza e del ripudio di tutti i fascismi. Perché Genova, dove peraltro era presente una piattaforma femminista di primo livello, che esprimeva con vent’anni d’anticipo molti dei temi ripresi da Non una di meno, a cominciare dal bisogno di riunire in un’unica battaglia donne e migranti, ossia le prime vittime di ogni barbarie, è tuttora di estrema attualità.
Il fascismo, è bene ribadirlo, non tollera la bellezza, la fragilità, qualsivoglia forma di diversità ed è sempre e comunque vigliacco. Rompe a calci e manganellate i denti di una ragazza di vent’anni che non parla una parola di italiano, dunque non può difendersi in alcun modo, e rinchiude nei CIE ragazze di vent’anni che oggi fuggono dalla miseria e dalla guerra e magari, domani, si troveranno a svolgere il mestiere più antico del mondo per ripagare i debiti contratti con i trafficanti di morte, dato che la fortezza Europa e un’Italia che guarda sempre piu a destra si rifiutano di creare dei corridoi umanitari per evitare di sommare tragedia a tragedia. Non che gli uomini non subiscano violenze e torture, sia chiaro: la barbarie non conosce distinzioni di genere. Fatto sta che le donne, e mille vicende ce ne danno conferma, costituiscono l’avamposto di ogni ferocia, le prime vittime di ogni regime, i corpi su cui si accanisce una violenza cieca e disumana, le anime che a distanza di tanti anni rimangono lacerate. E qui non si tratta ci asterischi o di rivendicazioni estemporanee ma di aspetti drammaticamente concreti. E non che una maggiore gentilezza e inclusività del linguaggio non lo sia: non mi convincono l’asterisco o la Schwa perché li reputo poco funzionali, in quanto difficili da leggere, ma che sia indispensabile smetterla con l’idea che il maschile includa sempre il femminile, anche se si racconta una storia in cui le donne hanno un ruolo di primo piano, questo è un dato ineludibile, innanzitutto per noi che scriviamo sui giornali e non solo.
Occorre un femminismo forte anche e soprattutto da parte di noi uomini: per estendere diritti, ampliare possibilità e, più che mai, per contrastare l’ondata retrograda e reazionaria che vorrebbe abolire la legge sull’aborto e riportare la donna a essere poco più che un angelo del focolare, un forno buono per far nascere bambini, senza una propria soggettività, una propria emancipazione e una propria riconosciuta visione del mondo.
In quest’estate, umanamente e professionalmente assai intensa, ho imparato anche che lo stupro non è solo quello inteso in senso originario: c’è anche uno stupro verbale, una minaccia di stupro, una violenza sottile e sadica che ferisce non meno del gesto in sé e crea sofferenze indicibili a chi la subisce.
Nel mio piccolo, chiedo scusa per non aver capito molte di queste cose prima, per non averle scritte prima, per non essermi battuto prima al fianco di chi sosteneva, a ragione, che stiamo scivolando verso scenari pericolosissimi. Sempre nel mio piccolo, d’ora in poi, mi impegnerò per costruire un orizzonte diverso, per ingentilire maggiormente il mio linguaggio, per combattere soprusi e vessazioni, in nome di quell’anti-fascismo che, non a caso, unì uomini e donne, partigiani e staffette, lasciandoci in eredità esempi straordinari di coraggio come Irma “Mimma” Bandiera, la quale preferì la morte al tradimento dei suoi compagni e delle sue compagne di lotta.
Un femminismo integrale che unisca varie piattaforme, che abbia l’umanità come primo valore e che vada oltre ogni steccato è oggi indispensabile per restituire al nostro Paese e al mondo un minimo di civiltà. A tal proposito, è bene ricordare che sono state soprattutto le donne americane a liberarci di Trump. Noi uomini dobbiamo prendere esempio, evitare che si alzino nuovi insostenibili steccati e camminare insieme a loro, né davanti né dietro ma accanto. Lo dobbiamo a Lena, a Sara, ad Anna, ad Arianna e a tutte le altre ragazze, italiane e non, che vent’anni fa rischiarono la vita fra la Diaz e Bolzaneto. È grazie al coraggio delle loro denunce se non siamo definitivamente sprofondati. Con loro e per loro dobbiamo riannodare i fili e riprendere il discorso. Perché non accada mai più una simile indecenza ma, soprattutto, perché anche la nostra piccola quotidianità possa essere migliore.
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