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Testi e paratesti di Nicoletta Orsomando

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Nicoletta Orsomando, scomparsa nei giorni scorsi e giustamente commemorata con parole positive e lusinghiere, merita anche una specifica riflessione mediatica.

Colei che impropriamente – secondo il solito rito maschilista- è stata chiamata la prima stabile annunciatrice della Rai, fu una sorta di paratesto, per usare la classificazione del filosofo strutturalista Gérard Genette. Il suo apparire costituiva una sorta di gentile e tuttavia fortissima irruzione semantica: un marchio di qualità. Una voce gradevole, una telegenicità elegante e sobria, un’empatia da influencer ne facevano una parte essenziale dello svolgimento televisivo, che presagiva.

Parliamo di un tempo antico (eravamo agli albori sperimentali del 1953), quando il pubblico ancora limitatissimo vedeva un video bianco e nero, essenziale. In cui la forza dell’immagine doveva essere ancor più forte e nitida, per reggere primi piani prodotti in un apposito studio senza cameramen. Lo sguardo diretto e senza mediazioni, con capacità recitativa onde evitare ogni artificio. L’ha ricordato in un post Elio Matarazzo, che dell’azienda è stato a lungo dirigente e memore proprio della laboriosa creatività di una caposcuola, in una tradizione significativa, tramontata via via.

Anzi. Il passaggio (ennesimo, che noia) ad un’ulteriore stagione trasmissiva con lucrativo cambio di apparecchi e decoder è fatalmente coinciso con la morte amara della regina dei pre-testi. Come se le due cose si tenessero insieme. Quasi ad avvertirci che un mondo si è proprio concluso.

Non è finita la comunicazione generalista, ma quel tipo di approccio da anni è in soffitta. Ora, con la dirompente fortuna dello streaming e del modello on demand, il palinsesto vero e proprio non esiste se non nelle pagine degli spettacoli dei giornali e nelle riviste dedicate. Così peritesti e paratesti sono scomparsi. La parabola è stata persino ingrata, essendosi confuso quel nobile ruolo con tutt’altro, in un universo segnato da tronisti e veline.

Quindi, ricordare una protagonista del video non è un mero atto dovuto all’eccellenza. Significa scuotere ogni conservatorismo e comprendere che la storia ha subito rotture forse definitive.

Senza indulgere a commozioni inutili o ad improvvide nostalgie, è importante capire che succede nella formazione delle culture di massa. In fondo, la tipologia interpretata da Nicoletta Orsomando supponeva una linea culturale, un tentativo di educazione permanente. Strutture forti, non leggerezze post-moderne. Il palinsesto è stato soppiantato da un flusso indistinto, poliedrico, crossmediale, esplicitamente ibrido e contraddittorio.

La stagione digitale si sta rivelando luogo di esagerate oscurità, non certamente di allargamento di conoscenza e di consapevolezza critica.

Torniamo alla protagonista di un lungo quarantennio, conclusosi nel 1993 con l’annuncio che ne diede – conducendo il Tg1- Piero Badaloni. Già, il Tg1. Voci maligne sostengono che la Orsomando non poté assurgere ad una autorevole funzione giornalistica, perché eccentrica rispetto alle ferree leggi della lottizzazione. Vero o no, comunque qualcosa mancò ad un percorso professionale cospicuo e variegato, ivi compresa la conduzione del festival di Sanremo del 1957. E poi la partecipazione alle prime trasmissioni di tribuna politica con Jader Iacobelli. E poi, ancora, la recitazione brillante ed autoironica nella parte di se stessa insieme a Roberto Benigni o a Fiorello, o in simpatico programma ideato da Gregorio Paolini. Insomma, bene, ma meno di quanto la conclamata bravura meritasse.

Oggi, senza demeritare, la Orsomando avrebbe potuto condurre talk e speciali, edizioni dei telegiornali o – perché no- giornali radio. Lei e le colleghe di quella stagione irripetibile ci raccontano cos’era, ma soprattutto, cosa potrebbe essere, una televisione intelligente e non appiattita alle esigenze omologanti degli indici di ascolto.

La vita è adesso, però. E ci tocca convivere con l’inferno digitale, laddove tecniche invadenti e trash si alimentano a vicenda.

Ripensare al passato ci ammonisce sull’urgenza di rompere una deriva. Con coraggio.


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