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Querele temerarie e il caso Salvini-Munafò. L’ultima prova delle azioni-bavaglio

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Numeri e coincidenze dicono (da anni) che le querele per diffamazione pretestuose sono perlopiù presentate da politici. Il dato incontestabile ha trovato conferma ulteriore proprio in questi giorni. Il 25 agosto al giornalista de L’Espresso Mauro Munafò è arrivata la notifica dell’ordinanza di archiviazione di una querela per diffamazione del segretario della Lega, Matteo Salvini e la lettura del provvedimento è il riassunto cristallino di cosa sono le azioni legali bavaglio in Italia. I fatti che hanno dato vita al procedimento penale contro Munafò sono del 2016 e ci sono voluti cinque anni (tempi normali per la giustizia italiana) per arrivare al proscioglimento, con una serie di risvolti economici che lo stesso giornalista racconta benissimo e che sono l’altro nodo irrisolto che minaccia la libertà di stampa in Italia.
“Nel 2016 Salvini mi querelò per un post sul mio blog in cui commentavo le sue frasi dopo l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano di 36 anni pestato a morte da un italiano perché aveva osato reagire agli insulti razzisti lanciati da questo contro la sua compagna. – ha scritto Munafò sulla sua pagina Facebbok – Salvini infatti se ne uscì poco dopo con un messaggio su Facebook in cui condannava l’accaduto, ma poi se la prendeva con l’immigrazione clandestina. Scaricando così parte della colpa di un omicidio sulla vittima. Nel mio blog esaminai punto per punto questa sua costruzione retorica, titolando che ‘Per Matteo Salvini se sei nero e ti ammazzano è un po’ colpa tua’. Il titolo lo fece infuriare e lanciò prima lo shitstorm social contro di me, e poi la querela. Dopo 5 anni, la querela è stata definitivamente archiviata. I giudici riconoscono che ho fatto bene il mio lavoro. Io ho la fortuna di avere dalla mia parte una testata come l’Espresso che difende i suoi giornalisti, ma questo tipo di azioni legali – chiamate querele temerarie e che nel 99% dei casi finiscono archiviate – sono una delle minacce peggiori che pendono sulla testa di tanti colleghi. Costano soldi, avvocati, tempo e fatica. Se poi pensate che Salvini in questi giorni raccoglie firme per un referendum per migliorare la giustizia, il danno diventa beffa. Vuole davvero migliorarla? Inizi a smetterla di fare querele che non fanno altro che ingolfare i tribunali”.
Ci sono due passaggi raggelanti in questa ricostruzione.
La prima: Mauro Munafò, e come lui tantissimi altri giornalisti, è stato prosciolto perché aveva fatto bene il suo lavoro. Quale altra categoria professionale viene “punita” e denunciata se fa bene il proprio lavoro, a parte i giornalisti?
La seconda: si sta chiedendo una modifica legislativa, dietro referendum, con la quale si intende far pagare le azioni penali infondate per reati perseguibili d’ufficio e dunque si prevedono sanzioni per i magistrati che le aprono. Ma le stesse forze politiche che chiedono questa riforma non pensano nemmeno lontanamente di fare la stessa cosa con le azioni penali avviate dai privati su querela. Il fatto che gli autori delle querele infondate contro i giornalisti siano in gran parte politici è la spiegazione del paradosso.
Anche Mauro Monafò ha chiarito il concetto di fondo e ossia che questo fenomeno sta “ammazzando il giornalismo”. Ecco perché serve una legge che il Parlamento non vuole approvare, per dimostrare che davvero si intende acclarare soltanto il concetto del  “chi sbaglia paga”.


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