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Anzi. Molti dei problemi di allora si sono estesi, aggravati e complicati.
La decisione degli afgani (governo ed esercito) di non combattere contro il ritorno dei talebani è il segno più clamoroso del fallimento dell’intervento militare.
A pagare il prezzo più alto, oggi sono proprio le persone che più hanno creduto alle promesse di libertà, democrazia e diritti. Tra queste ci sono le donne e i giovani che hanno lavorato per promuovere i diritti umani e far crescere una società civile, aperta e democratica.
Cosa avremmo dovuto fare nel 2001?
Come dicemmo nel 2001, la decisione americana di attaccare e invadere l’Afghanistan è stata sbagliata, illegale e pericolosa. Sbagliata perché ha provocato un numero impressionante di nuove vittime innocenti, nuove distruzioni e nuove violenze. Illegale perché era espressamente vietata dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite. Pericolosa perché anziché fermare la spirale del terrore ha finito per alimentarla.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati un fatto inedito che esigeva una risposta inedita.
Invece di attaccare e invadere l’Afghanistan bisognava scegliere un’altra strada più precisa ed efficace: la strada della legalità e della giustizia penale internazionale. Rinunciare a farsi giustizia da soli. Affidare all’Onu la responsabilità di agire a nome dell’intera umanità per sradicare i terrorismi con misure politiche, diplomatiche, finanziarie e di polizia internazionale…. … e andare alle radici dei problemi.
Cosa avremmo dovuto fare in questi 20 anni?
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costruire una strategia della comunità internazionale per l’Afghanistan e l’intera regione non più basata sul paradigma della “sicurezza militare” ma quello della “sicurezza umana” anche promuovendo lo sviluppo della cooperazione economica nell’intera regione;
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investire i due trilioni di dollari che abbiamo speso per fare la guerra per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni dell’Afghanistan;
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promuovere il dialogo politico con tutti, a tutti i livelli;
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raccogliere la domanda pressante dei familiari delle vittime afgane della guerra e del terrorismo di riconoscimento, ascolto, giustizia, sostegno e risarcimento;
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investire sulle organizzazioni democratiche della società civile afgana consentendogli di organizzarsi e rafforzarsi, promuovendo il loro riconoscimento politico a tutti i livelli, allargando il loro spazio d’azione, rafforzando la loro voce, sostenendo i loro programmi di riconciliazione dal basso, di difesa e promozione dei diritti umani e della democrazia, di formazione e informazione indipendente.
Cosa possiamo fare oggi?
Primo. Fare i conti con le conseguenze di questo disastro. E con le nostre accresciute responsabilità. Non c’è nulla di facile. La guerra ha complicato le cose e ridotto gli spazi d’iniziativa. Ciononostante non abbiamo alternative.
Secondo. Salvare la vita di chi oggi rischia la morte. Salvare più vite possibili, ora! Non domani! Dare rifugio a chi sta cercando di mettere in salvo la propria vita. Soccorrere subito chi chiede aiuto.
Terzo. Promuovere il dialogo politico a tutti i livelli, da Kabul all’Onu, per promuovere il rispetto dei diritti umani, a partire dalle donne. Non c’è un altro modo.
Dopo un così grande fallimento, è necessario cambiare strada. Chi non lo vorrà, ci farà pagare un prezzo ancora più alto.
Quali lezioni dobbiamo trarre da questo clamoroso disastro?
Prima Lezione. La guerra in Afghanistan non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi che pretendeva di risolvere.Il terrorismo, le atrocità dei talebani, le crudeltà contro le donne e le bambine, le violazioni dei diritti umani, la produzione e il commercio della droga,… Dopo l’Afghanistan abbiamo scatenato la guerra in Iraq e in Libia e i risultati sono ugualmente drammatici. È arrivato il tempo di prenderne atto, di smettere di fare le guerre e fare l’impossibile per fermarle.
Seconda Lezione. I diritti umani non si difendono né si promuovono con le guerre. La guerra è la forma più estesa delle violazioni dei diritti umani. Nessuna guerra è mai riuscita ad aumentare il rispetto dei diritti umani. Per difendere e promuovere i diritti umani nel mondo occorre investire sul dialogo politico, culturale e religioso a tutti i livelli, ricercare, promuovere e sostenere la cooperazione internazionale per la soluzione dei grandi problemi comuni, potenziare il sistema universale e i sistemi regionali di promozione e protezione dei diritti umani; dare attuazione ai programmi di educazione e formazione ai diritti umani promossi innanzitutto dall’Onu e dalle sue diverse agenzie, promuovere la partecipazione delle donne a tutti i livelli decisionali nelle istituzioni e nei meccanismi nazionali e internazionali per la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti…
Terza Lezione. Continuiamo a spendere migliaia di miliardi di dollari e di euro per inventare e costruire le armi più sofisticate e micidiali. Armi che chiamiamo invisibili e intelligenti. Ma niente di tutto questo è servito a vincere né la guerra contro i talebani né la guerra contro il terrorismo.
Quarta Lezione. Prima di questa guerra in Afghanistan c’era stata un’altra guerra. E prima dell’altra guerra ce n’era stata un’altra ancora. Ma nessuna di queste è mai riuscita ad assicurare un po’ di pace agli afgani. L’unica missione di pace, degna di questo nome, è la missione di chi si prende cura delle vittime della miseria e della guerra, dell’oppressione e dello sfruttamento.
Quinta Lezione. Gli Stati Uniti iniziano e finiscono le guerre quando vogliono, in base agli interessi politici dei governi in carica. Ma noi non possiamo continuare ad inseguire gli interessi di altri. Continuare a costruire coalizioni internazionali a la cartemina le stesse basi di quell’ordine mondiale di pace positiva la cui costruzione è stata avviata dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalle successive convenzioni giuridiche internazionali.
Sesta Lezione. La sicurezza o sarà per tutti o non sarà per nessuno. Il Convid19 lo ha reso ancora più evidente delle guerre. Nell’era della globalizzazione e dell’interdipendenza tutto è interconnesso e interdipendente. Nessuno può pensare di stare al sicuro pensando solo a sé stesso e agli amici. Le minacce sono globali e interconnesse. Sono ambientali ed economiche non solo militari. Per questo il nostro obiettivo deve essere la sicurezza umana e non più la sicurezza armata. Per quanto diverse e divergenti possano apparire le nostre culture e interessi, abbiamo un solo modo per farlo: lavorare assieme attorno a ciò che ci unisce, per affrontare le grandi sfide comuni e costruire una sicurezza comune.
Flavio Lotti, Tavola della pace
Marco Mascia, Centro Diritti Umani Antonio Papisca dell’Università di Padova