Libero Grassi lo diceva espressamente: “Io non sono pazzo a denunciare. Io non pago perché non voglio dividere le mie scelte con i mafiosi. È una questione di dignità”.
Trent’anni dalla sua morte e possiamo tracciare un piccolo bilancio. Troppe zone d’ombra permangono, troppe connivenze esistono ancora, inutile negarlo, come è inutile negare che la presenza della mafia sia tuttora asfissiante in un contesto di arretratezza, povertà e crisi esistenziale, oltre che politica e industriale, che la fine dei grandi partiti storici non ha fatto che aggravare. Va detto, tuttavia, che nel nome di Libero, di Falcone e Borsellino e di altre vittime del cancro mafioso una generazione si è messa in cammino. Va detto che aveva ragione, a tal proposito, Paolo Borsellino, perché i giovani che erano bambini all’epoca oggi hanno molti più strumenti per battersi contro la piovra e condannarla, e sono anche culturalmente più preparati rispetto al passato, tenendo presente che la mafia prospera nella paura ma, soprattutto, nell’ignoranza e nell’impossibilità di trovare alternative al suo giogo.
Libero Grassi, dunque, non è morto invano. Ha pagato con la vita il prezzo del suo coraggio, risvegliando con il suo estremo sacrificio la dignità di una terra che sa essere, al tempo stesso, il bene e il male. Una terra, quella di Sicilia, in cui da allora sono nate associazioni come Addiopizzo, si sono messe in moto decine di iniziative e si è prodotto un tessuto sociale e civile che ha posto la legalità al centro della propria battaglia, tenendo accesa una fiaccola di speranza nel buio di troppe menzogne e depistaggi, a cominciare dalla mai chiarita scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino.
Nel clima da fine impero che si respirava trent’anni fa, possiamo dire che esiste un filo sottile che lega Libero Grassi, i magistrati anti-mafia, don Pino Puglisi e altre vittime di un morbo che ha provato a reprimere e soffocare nel sangue chiunque osasse dire ai siciliani che un altro mondo era davvero possibile, che le cose stavano cambiando e che i presupposti del dominio mafioso stavano progressivamente venendo meno. Le nuove generazioni, quelle della Nave della legalità, quelle che si ritrovano ogni 23 maggio a Palermo, quelle che si recano in pellegrinaggio in via D’Amelio, che studiano fatti e circostanze avvenute quando non erano ancora nati o erano troppo piccoli per avere ricordi, queste generazioni di studenti, ricercatori, storici, giornalisti, commercianti, imprenditori, uomini e donne di cultura stanno cambiando il volto di un’isola che oggi non è più associabile al fenomeno distruttivo che l’ha devastata per decenni. Dire Sicilia e dire mafia non sono mai stati sinonimi ma oggi meno che mai, e sbaglia chi lo pensa e lo afferma per eccesso di pessimismo, commettendo oltretutto il delitto di ingiuriare un intero popolo e di offenderne la capacità di reagire. Come era intollerabile un tempo negare l’esistenza stessa della mafia, menzogna volta a favorirne la proliferazione, così è intollerabile oggi sostenere che tutto sia mafia. Non è vero. La Sicilia sta dimostrando, giorno dopo giorno, di sapere e poter essere anche altro. E il ricordo di Libero Grassi, della sua grandezza, della sua scelta di dire no, della sua forza d’animo e del suo esempio nobile e indimenticabile è da considerare una costante fonte d’ispirazione per chiunque voglia innovare e creare in un contesto oggettivamente difficile. È, inoltre, necessario perché è a uomini come lui che dobbiamo la svolta occorsa negli ultimi tre decenni, una prima realizzazione del sogno di Falcone e Borsellino: la nascita di una generazione anti-mafia che tiene alta, ovunque nel mondo, la bandiera di una Sicilia assai diversa dagli stereotipi che le sono stati cuciti ingiustamente addosso.
Libero Grassi, per i ventenni e i trentenni di oggi, è un punto di riferimento. Trent’anni dopo, almeno sotto questo aspetto, siamo migliori ed è principalmente merito suo. La battaglia continua.
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