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L’esempio di Silvia Bonini al processo contro il padre per la strage di Bologna

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“Vado a testa alta, perché la mia vita è completamente diversa”. L’esempio di una donna e di una cittadina esemplare, un monito per chi custodisce i segreti sugli anni di piombo.

Quando si è seduta di fronte ai giudici della Corte di Assise di Bologna, chiamati a giudicare fra gli altri Paolo Bellini, accusato di essere fra i responsabili materiali della strage del 2 agosto 1980, nessuno certo si aspettava che le parole di quella donna avrebbero assunto un peso tanto dirompente, destinato a risuonare ben oltre l’aula di giustizia in cui sono state pronunciate. Silvia aveva solo nove anni quando una bomba, collocata nella sala di aspetto della stazione di Bologna, annientava in un solo istante la vita di 85 persone e dilaniava per sempre i corpi di oltre 200 feriti: il crimine più atroce mai commesso in Italia in tempo di pace. Non ha ricordi precisi di quel giorno, Silvia Bonini. Per lei, nell’innocenza di quella sua età, quello era il giorno in cui doveva andare in vacanza in montagna, insieme alla sua famiglia, al passo del Tonale. L’eversione neofascista, le stragi di Stato, la lotta armata costituivano una realtà che, in quegli anni tormentati, segnava i destini del nostro Paese ma non quelli di questa ragazzina che immaginiamo inquieta solo per l’idea di dover fare un lungo viaggio verso paesaggi e vette lontane. Doveva pensare così Silvia Bonini quel 2 agosto 1980. Non pensava certo a fissare nella sua memoria ogni dettaglio di quel sabato d’estate. Nei suoi sogni di bambina che si avvicina all’adolescenza non vi era certo l’idea di dover essere chiamata a testimoniare, dopo oltre quarant’anni, su quanto accaduto in quella data. Eppure è successo. E la testimonianza di Silvia Bonini si è rivelata uno dei contributi più toccanti che sia mai stato reso in un processo sul terrorismo italiano.

È cambiato tantissimo, per tutti, da quel 2 agosto del 1980. Anche per Silvia. Oggi ha una famiglia tutta sua, ha dei figli. Silvia ha cambiato anche cognome, nel frattempo. Con parole struggenti, ha riferito ai giudici della Corte di Assise di Bologna di aver scelto autonomamente, ad un certo punto, di assumere il cognome della madre e di quel nonno che l’ha cresciuta con amore e da cui ha appreso i valori veri, semplici, di una vita improntata alla legalità, al lavoro duro ed onesto, al rispetto del prossimo. Perché Silvia è la figlia dell’imputato Paolo Bellini. La “figlia biologica”, come lei stessa ha tenuto a precisare più volte, con voce ferma, innanzi ai magistrati che la interrogano.

Il 21 luglio scorso, Silvia ha risposto a tutte le domande che le sono state rivolte; ha riaperto, per quel che ha potuto, l’archivio di un passato familiare che, per colpe non sue, si confonde tragicamente con alcune pagine oscure della “notte della Repubblica”. Al di là della contestazione sub iudice di concorso nella strage di Bologna, Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia Nazionale, è stato infatti riconosciuto responsabile in via definitiva di numerosi omicidi di cui è reo confesso: dall’assassinio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, avvenuto a Reggio Emilia nel 1975, sino alla lunga scia di morte seminata negli anni ’90 per conto del boss di ‘ndrangheta Nicola Vasapollo. Le risultanze giudiziarie ne consegnano il profilo di un killer spietato, a lungo favorito dalla connivenza con apparati e personalità eccellenti, in grado di cambiare agevolmente località di latitanza, relazioni criminali ed identità. Mentre incrociava lo sguardo dell’imputato, Silvia Bonini non ha mancato di descrivere tutto il peso che questa storia criminale, a tratti ancora densa di misteri, ha inesorabilmente impresso sull’esistenza personale sua e dei suoi più stretti familiari. Silvia avrebbe potuto evitare di sottoporsi all’esame testimoniale. Un antico principio di civiltà giuridica riconosce la facoltà di non rispondere a domande da cui potrebbero emergere elementi a carico di un prossimo congiunto. Superiore ai canoni del diritto, si è imposto però, nella coscienza di Silvia, il dovere etico, ancor più eminente, di fornire un contributo di verità su fatti tanto gravi, per l’affermazione della Giustizia. Anche se ciò le ha causato un rinnovato dolore, una pubblicità di cui certamente avrebbe fatto a meno, l’intimo disagio di confrontarsi col passato di un padre tanto diverso da lei. Ed allora, più che per l’apporto concreto che i suoi scarni ricordi hanno potuto rendere alla ricostruzione di quella tremenda giornata, il valore di questa testimonianza sta proprio in quel che Silvia ha avuto la forza ed il coraggio di dire, con espressioni sofferte e meditate, al termine della sua deposizione. Le sue parole rendono onore all’impegno civile del testimone, di ogni testimone, in un processo penale: «Io, visto che mi trovo in questo processo come testimone, sento davvero di voler dire a tutti che è stata una mia decisione quella di venire a testimoniare (…). Ho deciso di venire perché ritengo che sia giusto dare una testimonianza per una cosa così grave ma soprattutto perché penso anche alle persone, alle vittime, al di là di quello che sarà l’esito [di questo processo]. E perché io, nonostante sono figlia di Paolo Bellini, vado a testa alta perché la mia vita è completamente diversa. Voglio anche dire che spero veramente che tutte le testimonianze che ascolterete e che avete ascoltato possano fare luce per dare giustizia a tutte le vittime. Per me, la famiglia è stata una grande sofferenza ma sono qua, nonostante quello che passeremo sui giornali ecc. (…). Io mi sono sentita davvero di venire. Era più facile dire “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”, ma io ho una coscienza e voglio dire ed ho detto quello che potevo dire per aiutare a fare luce, perché siamo tutti toccati da questa cosa». Parole scandite nel silenzio di tutti i presenti, nell’aula di udienza. Un silenzio rotto dalla voce commossa del procuratore generale: «Signora Bonini, come magistrato italiano la ringrazio molto». Ogni cittadino italiano dovrebbe essere riconoscente a questa donna semplice che porta in sé i valori migliori della tradizione di un’Emilia che è stata culla di Resistenza, terra di instancabile operosità e di solidarietà fra le genti. È auspicabile che l’esempio di questa donna valga quantomeno a scalfire il muro di omertà entro cui rimangono celati i nomi dei responsabili di troppi delitti efferati commessi fra il 1969 ed il 1988 e rimasti impuniti. Vi sono tanti figli e figlie, fratelli e sorelle, madri, padri, mogli e mariti che sono depositari di frammenti preziosissimi di verità, in grado di far luce sugli episodi più torbidi di quella stagione di sangue. Tutti costoro potrebbero rinvenire dentro di sé lo stesso coraggio e la stessa dignità di Silvia e raccontare, a testa alta, quel poco o tanto che sanno e che non hanno mai rivelato su quei crimini orrendi. A quarantun anni dalla strage di Bologna si può e si deve coltivare anche questa speranza.


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