Quando Sofocle vuole immortalare Aiace che, colto da follia omicida ma accecato da Atena, scambia una mandria di bestiame per gli Atridi, utilizza nella tragedia omonima il curioso termine synauloisé: Aiace è un uomo synauloisé dalla follia divina. Le traduzioni recitano che Aiace è «incantato» o «posseduto» dalla follia divina, ma se non avessimo timore di uno strano neologismo dovremmo invece dire che Aiace è «sin-auloizzato», che cioè si comporta come se il suo essere «risuonasse in consonanza con l’aulos». Anche Euripide mette in correlazione la follia omicida di Eracle, nell’omonima tragedia, con l’aulos e aggiunge inoltre qualcosa di molto interessante quando afferma che la danza sinistra di Eracle spinto dall’ira avverrà senza il concorso dei tamburi.
La possessione sanguinaria che si impadronisce dei personaggi tragici di Aiace e di Eracle non è legata al battito di strumenti percussivi come tamburi, crotali o cimbali, ma alla melodia dell’aulos, e per la conoscenza sulla trance ciò delinea un più ricco orizzonte: lo stato di possessione che riteniamo scatenato dal ritmo di strumenti percussivi, era considerato nella cultura greco-arcaica come collegato allo strumento a fiato detto aulos, una specie di flauto ad ance con doppia canna di osso o di avorio.
Ma se queste notizie giungono dai tragediografi, non mancano conferme da parte di quei filosofi che hanno meditato sugli effetti della musica sull’uomo e sull’etica. Nel Simposio Platone afferma che le melodie suonate con l’aulos «da sole, per la loro potenza divina, trasportano le anime in delirio». Per Aristotele quelle melodie «rendono le anime entusiaste e l’entusiasmo è una malattia dell’atteggiamento etico dell’anima»; l’aulos «non serve a esprimere le qualità morali dell’uomo ma è piuttosto orgiastico», più idoneo a procurare catarsi che istruzione e dunque buono per ascoltatori grossolani.
Associato in qualche modo alla descrizione di fenomeni possessivi, l’aulos appare nell’immensa opera di Platone una decina di volte, mentre una sola volta ci imbattiamo nel termine ‘ritmo’. In modo simile ragiona Aristotele, che solo incidentalmente tratta del ritmo e solo come di elemento marginale nei rapporti con la possessione e l’entusiasmo. Eppure i Greci non dovevano certo usare tamburi e crotali con una veemenza sonora e con una frenesia ritmica minori rispetto agli altri popoli, che del tamburo fecero strumento di scatenamento parossistico della trance. Il fatto è che, nel caso dei Greci, siamo al cospetto di una cultura per così dire più raffinata, nella quale le pratiche cultuali di possessione prevedevano l’impiego di uno strumento eminentemente melodico.
Vale riassumere alcune conclusioni cui è giunta la filologia classica. Acquisita è l’opposizione che nella cultura greca vigeva tra la pratica della citaristica (impiego solista della cetra) che elevava lo spirito alla calma, e la pratica dell’auletica (impiego solista dell’aulos) che eccitava all’entusiasmo. Con la cetra il greco, memore della tradizione numerico-musicale pitagorica, poteva esprimere nelle note i rapporti tra uomo e universo; con l’aulos invece, strumento approssimativo dove i suoni possono essere facilmente alterati dalla pressione del soffio e dalla posizione delle dita sui fori, i rapporti tra le note erano inesprimibili coi numeri e lo strumento appariva fonte di irrazionale. La citaristica si profila allora come arte apollinea e l’auletica come dionisiaca, cosa ovvia se consideriamo la nascita dei due generi musicali: la citaristica è di origine dorica e di tradizione puramente greca, l’auletica invece di derivazione asiatico-anatolica e con radice in ignoti culti orgiastici.
La mitologia riflette molto bene il conflitto fra i due generi musicali. Si narra che creatore dell’aulos fosse il sileno frigio Marsia, mentre inventore della lira era considerato dai Greci il dio Apollo. Fiero del suono prodotto dal suo strumento, Marsia osò sfidare Apollo e ne fu sconfitto: Apollo lo spellò vivo e lo appese a un albero da dove il sangue colante di Marsia e le lacrime di coloro che lo piansero formarono il fiume omonimo. È allora agevole dedurre che nello scatenamento della trance mediante l’aulos non erano implicate solo le caratteristiche timbriche o la possibilità di alterare i suoni rendendo sfumati i rapporti numerici: l’aulos doveva procurare la possessione anche perché su di esso venivano suonate le melodie di Marsia e del suo allievo prediletto Olimpo, melodie dunque di modalità frigia, particolare tipo di scala musicale associata alla passione e impiegata nei misteri orgiastici e nei culti di fertilità. Lo strumento e la speciale scala melodica su di esso suonata concorrevano a creare l’effetto finale di scatenamento della trance.
L’origine straniera e dionisiaca dell’aulos giustifica la sua funzione sociale: l’aulos appare infatti nella cultura greca collegato alle classi inferiori. Era suonato da schiave e da altre umili figure durante i banchetti; Platone lo associa alle cortigiane; era suonato durante marce militari o lungo i tiasi, i cortei dionisiaci di villaggio; ed eccolo infine accompagnare a teatro i ditirambi e i cori della tragedia attica, tipici generi dell’arte dionisiaca. Dove insomma ci sono schiavi, soldati, prostitute e bagordi là c’è l’aulos: strumento disprezzato dalle classi colte, strumento popolare nella sua essenza perché in qualche modo collegato al vizio. Il meno che si può dire è che era di uso non certo esclusivo, come non esclusivo e disprezzato è in genere – nelle moderne culture razionali – tutto ciò che causa trance.
Fonte: https://www.scriptandbooks.it/2021/08/04/laulos-e-la-trance/