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La Polonia blocca la restituzione dei beni confiscati in guerra

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La guerra diplomatica, in corso, fra Israele e Polonia (Israele ha richiamato il suo ambasciatore a Varsavia e ha chiesto alla Polonia di prorogare le vacanze di quello polacco a Tel Aviv), riguarda più che altro i simboli e il rapporto con il passato. E proprio per questo, per il suo aspetto immateriale, anche se in apparenza è in gioco la restituzione dei beni confiscati agli ebrei dai nazisti e poi diventati proprietà dello Stato polacco, la vicenda dice molto sulla narrazione cara ai sovranisti polacchi al potere e sulla sensibilità degli israeliani. Ma procediamo con ordine.

Poche settimane fa, il parlamento di Varsavia ha approvato una legge che limita a trent’anni la possibilità di richiedere appunto i beni confiscati dai nazisti e poi nazionalizzati dal potere comunista. Il provvedimento riguarda la totalità degli eventuali eredi dei proprietari, ma nella retorica nazionalista è sempre stato sottinteso che le richieste di restituzione dei beni, soprattutto da parte degli ebrei trasformerebbero la Polonia da “vittima del nazismo” in un paese costretto a risarcire gli altri, i “non polacchi”, appunto.

Spieghiamoci. Con l’avvento della democrazia, è stata aperta dagli storici la questione delle delazioni contro gli ebrei e dei casi delle uccisioni degli ebrei da parte dei vicini di casa cattolici, ai tempi dell’occupazione nazista. I nazionalisti hanno cercato in ogni modo di fermare la discussione sul passato. E’ questo per creare un mito di una nazione vittima, mai macchiatasi di antisemitismo. Sia chiaro, la responsabilità della Shoah è tutta dei nazisti, ma cercare di impedire di indagare sul passato, non è un modo di procedere usuale delle democrazie. E in concreto: le restituzioni per via giudiziaria erano pochissime, così come pochi sono gli eredi dei proprietari ebrei (il 90 per cento degli ebrei polacchi venne assassinato dai tedeschi). Ecco perché il valore della legge è simbolico ed ecco perché da Israele sono piovute le accuse di antisemitismo fino a ritirare appunto l’ambasciatore.

L’escalation del conflitto è stata poi voluta dal viceministro degli Esteri polacco, Pawel Jablonski, che pochissimi giorni fa ha detto di essere intenzionato a “rivedere” le modalità dei viaggi dei giovani israeliani ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio nazista in territorio polacco, perché durante queste visite verrebbero diffusi “pregiudizi anti polacchi”. Ecco un altro cavallo di battaglia dei sovranisti. Esiterebbe un “antipolonismo” degli ebrei. Si tratta, sempre dello stesso tentativo di impedire la discussione sul passato, sull’antisemitismo, anche dopo la guerra e via elencando. Ora, i viaggi nei campi di sterminio delle scolaresche israeliane sono cominciati sempre nei primi anni Novanta. E le modalità suscitarono molte critiche pure in Israele: i ragazzi visitavano solo i luoghi della morte. La visione che avevano della Polonia era quella dell’enorme cimitero in mezzo a una popolazione ostile. Nel frattempo però tutto questo è cambiato. Nei viaggi oggi, i giovani israeliani vedono anche la Polonia reale, visitano altri musei, frequentano luoghi di incontro dei loro coetanei, vengono informati degli aspetti di integrazione degli ebrei nella vita culturale della Polonia, prima dell’Olocausto. Jablonski ha usato quindi un argomento superato dai fatti per resuscitare i rancori, per ribadire ancora una volta: c’è chi ci odia così tanto (gli israeliani) da trattarci da carnefici. Superfluo dire, che per gli israeliani l’idea stessa che qualcuno possa pensare di cercare di impedire i viaggi dei giovani nei luoghi della morte dei loro (ormai) bisnonni è qualcosa che oltrepassa la soglia del dolore, ma è anche un’azione che delegittimerebbe lo stesso Israele come paese erede degli ebrei assassinati.

Intanto, il Consiglio della comunità ebraica di Varsavia ha pubblicato un comunicato, il cui succo è semplice: per favore, tornate a ragionare.


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