“…solo se mi starai accanto potrò ripercorrere carponi il vicolo buio e tortuoso che si spalancò davanti a me sette e sette e sette e ancora sette mesi fa alla notizia che il mio analista era impazzito”. Questa l’invocazione che nelle prime pagine di “Il filo di mezzogiorno” Goliarda Sapienza rivolge alla sorellastra Nica, morta quando lei si era allontanata dalla Sicilia, e che dopo mesi le ha parlato, le ha fatto sentire di nuovo la sua voce e questo per lei è segno che la sua decisione, o meglio la sua accettazione di dover tornare indietro per andare avanti, è giusta. Tornare indietro per andare avanti è ciò che Goliarda ha dovuto fare più volte nella vita: nel suo lungo periodo di analisi; nel difficile percorso che aveva dovuto affrontare da sola dopo che l’analista che l’aveva seguita per anni aveva bruscamente decretato la fine del loro rapporto di analisi e allora da sola aveva dovuto recuperare dentro di sé quelle figure fondamentali della sua vita che aveva sezionato, fatto a pezzi negli anni di analisi; ancora infine era dovuta tornare indietro le volte in cui con la scrittura, in vari libri, aveva ripercorso in modi diversi sue esperienze di vita.
“Il filo di mezzogiorno”, ora ripubblicato da La nave di Teseo, è il secondo romanzo di Goliarda Sapienza, pubblicato per la prima volta nel 1969 per l’editore Garzanti. Il libro doveva far parte di un ciclo autobiografico iniziato con “Lettera aperta”, pubblicato due anni prima dallo stesso editore, un’autobiografia in fieri che Goliarda chiamava “ autobiografia delle contraddizioni”. Periodicamente una nuova Lettera aperta doveva aggiornare gli eventi, gli incontri, le situazioni della sua vita; ogni romanzo doveva essere leggibile senza l’ausilio degli altri, avere una propria emblematicità, magari in contraddizione con la successiva. Contrariamente a una certa rigidità delle autobiografie tradizionali, Goliarda voleva documentare il continuo mutamento della coscienza e i cambiamenti dell’io rispetto al passato e di conseguenza le diverse reazioni e situazioni del presente. Il progetto si interruppe con “Il filo di mezzogiorno” per l’urgenza di dedicarsi alla scrittura del romanzo “L’arte della gioia”, un’opera che la impegnò in anni di intensa scrittura dal 1969 al 1976 e che si rivelò un insuccesso. Nel romanzo la sua ricerca esistenziale viene filtrata attraverso il personaggio complesso di Modesta, con simboli che risultavano difficili da capire e accettare in pieni anni di piombo, per cui intellettuali e editori cui era stato dato in lettura lo respinsero e solo negli anni duemila al lavoro sono stati dedicati studi critici da parte di diverse studiose e ha trovato apprezzamento e affermazione tra il pubblico anche a livello internazionale.
Ne “Il filo di mezzogiorno” Goliarda Sapienza ripercorre l’esperienza drammatica di analisi da lei vissuta tra il 1962 e il 1964, riconoscendo i benefici ricevuti dalla terapia, ma criticando anche una certa psicanalisi. Spiega Angelo Pellegrini nell’introduzione: “Si trattò di “analisi selvaggia”, come allora si chiamava la pratica eterodossa che alcuni analisti usavano, o provavano ad usare. Del resto l’Italia, ancora negli anni cinquanta, era una sorta di Far West in ambito psicanalitico.” L’Italia scontava un ritardo culturale dovuto all’ostracismo del fascismo rispetto a questa pratica che poi si sviluppò caoticamente, trovando d’altra parte nel dopoguerra ancora un’ostilità anche nell’ambito della sinistra marxista cui Goliarda apparteneva, anche se in posizione fortemente critica, per origini familiari. Infatti Goliarda non si avvicinò all’analisi spontaneamente, ma a causa di una forte depressione. In seguito a un grave episodio, che venne interpretato come tentativo di suicidio, anche se lei ne negò l’intenzione, fu ricoverata in una clinica romana in cui le fu praticato l’elettroshock, con risultati devastanti sulla sua mente. Venne allora affidata alle cure del giovane psicanalista Ignazio Majone, che intraprese con lei una terapia analitica quotidiana presso la sua abitazione. Goliarda Sapienza ne “Il filo di mezzogiorno” racconta dei primi incontri con l’analista in cui lei non ha chiara consapevolezza del tempo, del luogo e della identità della persona che ha di fronte. Tuttavia prende l’avvio un faticoso dialogo in cui consegna immagini e spezzoni della sua vita passata: il suo trasferimento a Roma con la madre nel 1941 per frequentare l’Accademia d’arte drammatica diretta da Silvio D’amico, dove conseguì una borsa di studio; l’arresto del padre, Peppino Sapienza, da parte dei fascisti a Catania; ricordi di fratelli e figure dell’infanzia; incubi di arresti e torture da parte dei nazisti che si confondono con ricordi dell’ elettroshock, “la stanza del sole artificiale”. Progressivamente acquisisce una maggiore consapevolezza della sua situazione e prosegue la terapia con il racconto dei sogni che l’analista interpreta mettendo a fuoco quelli che ritiene i nodi fondamentali della sua vita, alla cui origine fa risalire la figura della madre, Maria Giudice. Donna straordinaria, figura coraggiosa di combattente, divenne nel 1916 primo segretario della Camera del Lavoro di Torino e nel 1917 segretario della Federazione provinciale Socialista di Torino, fu più volte arrestata e detenuta in carcere per la sua attività contro la guerra.
Madre di sette figli, nati da una precedente relazione, nel 1920 si unisce a Peppino Sapienza, avvocato dei poveri e dei lavoratori, padre di tre figli, nati da un precedente matrimonio; in questa nuova numerosa famiglia nasce Goliarda. Giovanna Providenti nel 2010 scrisse “La porta aperta. Vita di Goliarda Sapienza” e anche lei per scrivere la biografia di Goliarda sentì il bisogno di partire proprio dalla storia di Maria Giudice, come confessa nella introduzione. Goliarda, nel suo racconto allo psicanalista, è ossessionata dal ricordo della pazzia in cui è scivolata la madre alla fine della sua vita e che cui teme di aver ereditato. L’analisi prosegue in un rapporto dialettico con il medico alle cui interpretazioni oppone talvolta le sue idee decise come sul matrimonio, sulle amicizie femminili, sul peso individuale di ogni persona con cui si entra in rapporto al di là del transfert e delle compensazioni, come sui traumi che possono essere non solo infantili ma anche storici, come sono stati per lei la rivelazione dei crimini di Stalin e il XX Congresso. Il rapporto con l’analista si complica, lui ammette di capire delle cose di se stesso attraverso l’analisi di lei, lei prende coscienza del suo transfert per il medico e chiede di essere affidata a un altro terapeuta; si allarma soprattutto quando dopo un anno questo transfert non passa come invece l’aveva rassicurata il medico. Goliarda descrive poeticamente e simbolicamente la sua passione; sostiene con l’analista che ciò che prova non è un transfert nebuloso e astratto, ma qualcosa di molto carnale, fino a chiedergli di darle un figlio. L’analista la rassicura sul superamento di questa fase e le promette che non la abbandonerà fino alla soluzione della malattia . Il medico però vivrà una forte crisi personale e professionale che lo porterà ad interrompere il rapporto psicanalitico decretando finita l’analisi. Goliarda vivrà per due anni con un’infermiera, Giovanna, su suggerimento del dottor Majone.
Separatasi anche dal compagno di vita, il regista Citto Maselli, dovrà affrontare da sola, con l’assistenza di Giovanna, una difficile ricostruzione di sé dopo l’analisi :“Nica, mia madre, mio padre, cadaveri sezionati a pezzi, buttati nella cassapanca … Titina, Haya, Franca, Marilù Tonello vivisezionati a pezzi, buttati nella cassapanca. Anch’io, camminavo, mi muovevo ma ero a pezzi in un mucchietto, sul pavimento, in mezzo alla stanza … dove andare?”. Dopo un lungo periodo di sofferenza Goliarda ritrova la voglia di raccontare e allora si rivolge direttamente ai lettori “assenti ma presenti affollati attorno al viso di Giovanna”, alla quale per prima riuscì a raccontare suoi ricordi, per dire che fu allora che ancora una volta “ tornò indietro per andare avanti”, ma questa volta attraverso la scrittura del libro autobiografico “Lettera aperta”: “… dovevo ritrovare mio padre, mia madre, Nunzio, Nica, i miei fratelli, le mie sorelle,dovevo ritrovarli, ricostruirli in una vita loro così che nessuno avrebbe più potuto … e nella gioia di liberazione … nella gioia di riaprire quella cassapanca e risentire le loro voci, rivedere i loro visi, toccare le loro mani, guardare il colore dei loro occhi … in quella gioia di liberazione la carta velina della speranza morta nel mio petto ebbe un sussulto …” E’ il sussulto di speranza che quel medico avesse ragione e che fosse davvero guarita. Ma nella sua dolorosa vita, come Goliarda sa, dovrà più volte camminare correre cascare rialzarsi per percorrere i corridoi sotterranei del suo passato perché “… quante volte ci è dato morire e rinascere fra l’alba e il giorno di questa nostra breve ora carnale?”.Ognuno per vivere deve morire e rinascere più volte e col suo spirito libero Goliarda critica “quell’uomo nella sua autorità di grande medico” e rivendica “… ogni individuo ha il suo segreto … non violate questo suo segreto … non violate questo segreto, non sezionate, non catalogate per vostra tranquillità, per paura di percepire il profumo del vostro segreto sconosciuto e insondabile a voi stessi, che portate chiuso in voi fin dalla nascita sconosciuto e insondabile a voi stessi. Ogni individuo ha il suo segreto, ogni individuo ha la sua morte in solitudine”.
Quest’anno il regista Mario Martone ha messo in scena uno spettacolo teatrale in un adattamento del libro di Ippolita di Majo.
Goliarda Sapienza, Il filo di mezzogiorno, La nave di Teseo, 2019
Goliarda Sapienza. Lettera aperta, Einaudi 2017
Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, Einaudi 2008
Giovanna Providenti, La porta aperta. Vita di Goliarda Sapienza, Villaggio Maori edizioni, 2010