Genova 2001 – Italia 2021 – IV parte. Interviste ad Alfredo Falvo e Boris Sollazzo

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Nella vita, come nell’arte, le intenzioni non contano”. Pablo Picasso

Si conclude con le due interviste che seguono il viaggio dentro Diaz, il film del 2012 e il libro (Fandango, luglio 2021).

Grazie ad Alberto Crespi (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-i-parte/ ),

Pietro Montani (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-ii-parte-pietro-montani-diaz-dont-clean-up-this-blood-il-film-polifonico-su-genova-2001/),

Daniele Vicari (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-iii-parte-intervista-a-daniele-vicari/). E grazie, qui, a Boris Sollazzo e Alfredo Falvo.

Guardare questa strana penisola dal punto di vista trasversale e scivoloso dei diritti violati, a Genova nel 2001, a Bari nel 1991, nelle carceri sempre, nelle morti di Stato e nei casi di abuso di potere in una Repubblica che rigurgita ciclicamente una forma mentale reazionaria e fobica, non è stato comodo.

Nell’estate di pandemia e terrorismo consolidato, tutto quello che di sconveniente possiamo dire a proposito dell’Italia, a uno sguardo superficiale può risultare fuori luogo. Ma l’affermazione dei diritti è una conquista che questo Paese ha ottenuto dopo vent’anni di Fascismo, una guerra mondiale disastrosa e una spietata, necessaria ‘guerra civile’, parafrasando il titolo del lungo e dettagliato saggio storico del partigiano Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Questa conquista va difesa e ricordata, nel disumano agosto 2021.

Ecco perché siamo lieti di aver accompagnato i lettori dentro riflessioni specifiche e generali, storiche, politiche, cinematografiche, filosofiche, culturali, affidate a chi si occupa di cercare il vero, piuttosto che il buono.

Soprattutto perché l’attualità dei fatti di Genova resta immutata, congelata, evidente. Non si vuole qui parlare dei fatti giudiziari, alcuni dei quali non conclusi e non chiariti, ma di soluzioni normative di civiltà e progresso portate avanti da associazioni umanitarie e Ong internazionali e mai da quei partiti politici che dovrebbero invece fare serie opposizioni istituzionali, quando il Potere abusa del suo potere. Ci riferiamo alla recente e perfettibile Legge contro la Tortura (nata dai ‘fatti di Genova’ e della quale si è parlato nella precedente intervista a Daniele Vicari), ma anche di un’ altra misura, tanto necessaria quanto taciuta.

Dopo quel G8, l’inizio di processi infiniti e la condanna CEDU contro l’Italia per la condotta delle forze dell’ordine e per la violazione dell’Art. 3 della Convenzione dei Diritti Umani che vieta la tortura e i trattamenti e le pene disumane avvenuti in quel luglio 2001, è nata una campagna internazionale, capeggiata da Amnesty International, sui codici identificativi delle forze di Polizia in servizio. E’ una proposta chiara, a tutela della maggioranza di quegli agenti onesti che fanno il loro mestiere con dedizione e senso dello Stato e che dovrebbero prendere le distanze da colleghi corrotti, violenti, colpevoli, nel senso pieno del termine. Ed è una soluzione che tutelerebbe i cittadini, liberi o carcerati che siano, dagli abusi di chi dovrebbe servire lo Stato, non servirsene. Da venti anni, Genova insegna che le buone regole di convivenza civile tra apparati dello Stato e popolazione dovrebbero essere una priorità. Ma, mentre 21 tra i 27 stati membri dell’Unione Europea hanno approvato la normativa che regola l’apposizione di codici identificativi alfanumerici su divise e caschi delle forze di Polizia, l’Italia (insieme a Austria, Cipro, Lussemburgo e Olanda), non intende costruire una legge a riguardo. Bizzarro che una formula di così alto profilo civico non riesca a entrare nelle sedi istituzionali della Nazione in cui si sono verificati i fatti della ‘macelleria messicana’ e nel Paese con la più bella Costituzione mai scritta, lo si ripete fin troppo, nata da giuristi, filosofi, intellettuali che hanno vissuto morte, privazioni, umiliazioni, abusi fascisti.

E allora, a maggior motivo rispetto al generico celebrare anniversari, quel film di 10 anni fa e questo libro del luglio scorso, sono utili, hanno una funzione civile, al di là di ogni retorica, polemica, gusto personali.

A concludere davvero questo tentativo di capire meglio in che paese viviamo e come lo si possa raccontare, proponiamo le interviste al giornalista Boris Sollazzo e ad Alfredo Falvo, il fotografo di scena di Diaz.

Boris Sollazzo, da curioso critico cinematografico, all’uscita di Diaz, nel 2012, ebbe l’intuizione felice di intervistare Ugo Gregoretti ed Ettore Scola, perché i due intellettuali e politicissimi registi guardarono a questo film di Vicari come a un fatto del tutto nuovo. Non soltanto per un linguaggio cinematografico inusitatamente moderno (Diaz, a riguardarlo dopo 10 anni, ha una costruzione per immagini innegabilmente sperimentale, attualissima). Quelle riflessioni dei due maestri, ci mettono soprattutto di fronte a fatti evidenti eppure sempre sorvolati: il nesso tanto raro quanto innegabile tra generazioni di registi assai differenti eppure legati da un comune senso di ricerca e la evidente necessità di ricreare una continuità, nella storia, nel cinema, nella cultura, che leghi personalità differenti tra loro e non che divida, come monadi, autori ripiegati su percorsi personali, dove collaborazione e dialettica vengono escluse a priori.

La conversazione con Alfredo Falvo, a sua volta, svela l’identità di un fotografo di rara sensibilità estetica, entusiasta, con l’umiltà e l’ironia di chi ama il proprio lavoro e si diverte, seriamente. Le fotografie che ha scelto per il libro sono da osservare soffermandosi sui dettagli e sulla peculiare capacità di fermare il tempo e lo spazio nello scatto.

Tutti coloro che sono intervenuti in questo viaggio estivo poco riposante di Genova2001-Italia2021, hanno partecipato alla realizzazione di un libro prezioso, dove lo storyboard e le foto di scena e gli interventi discussi nelle interviste precedenti e i quelle che seguono, mostrano un amore chiaro e consapevole verso la ricerca della verità e incarnano l’idea di una felice comunità di persone che si diverte, anche laddove rabbia e frustrazione per la tragicità dei fatti raccontati potrebbero offuscare la ricerca del giusto.

Diaz, il film e il libro, rappresentano quella legge morale che indaga senza stancarsi e guarda al cielo per goderne la bellezza, con lo stupore e la fiducia di chi fatica con amore. Il piacere degli occhi (il bel titolo del libro di François Truffaut, Saggi Marsilio, 1988) è soddisfatto a ogni immagine, che resta.

Intervista a Boris Sollazzo

Lei ha fatto due interviste a Ettore Scola Scola e Ugo Gregoretti, inserite nel DVD che accompagnava il film di Daniele Vicari e che sono state trascritte in questo bel libro. Secondo lei, questi 2 grandi autori del cinema italiano quale valore aggiunto hanno dato alla comprensione del film?

Tutto nasce dal loro entusiasmo per il film di Vicari, quando uscì. Considerando l’ironia sagace di Gregoretti e la garbata ferocia di Scola, quell’entusiasmo non era per nulla scontato. Quando si è pensato di fare gli extra per il DVD di Diaz, inevitabilmente abbiamo ritenuto importante ascoltare le loro voci e le loro opinioni. Anche perché molti grandi autori del cinema italiano, iscritti all’ANAC o ad altre associazioni e fondazioni di cinema, andarono fisicamente a Genova, a fare le riprese di quell’evento che avevano intuito sarebbe stato sorprendente da filmare (c’erano anche Scola e Gregoretti). Ricordo lo sconcerto di tanti autori di cinema presenti a Genova in quei giorni. Lo stesso Gregoretti, nell’intervista che ho fatto, racconta un fatto che denuncia la loro incredulità: Gillo Pontecorvo avrebbe voluto fare alcune riprese suggestive, evocative della manifestazione che stava filmando, ma l’operatore con il quale girava capì che sarebbe stato più importante filmare gli scontri in atto e non seguì le indicazioni del regista. Questo per dire che quella generazione che aveva un certo sguardo anche ‘poetico’ sul diritto di manifestare liberamente il dissenso dal potere, a Genova si è scontrato con qualcosa che ha spiazzato tutti, anche autori esperti di cinema ‘politico’ come Scola, Gregoretti, Pontecorvo. Mi sembrò interessante anche sapere come dei maestri del cinema italiano guardassero alla generazione più giovane, quella stessa che proprio loro avevano spesso accusato di essere la ‘generazione del disimpegno’ . Si ritrovano, con Diaz, di fronte a un film che non ha tempo, che ha una forza universale. Anzi, per dirla tutta, Diaz sembra girato oggi. Se si guardano, cioè, quei ragazzi del G8 di 20 anni fa e si pensa agli immigrati, oggi, nei Centri di permanenza temporanea (CPT), o ai detenuti di Santa Maria Capua Vetere torturati dopo le rivolte per la paura del Covid della primavera del 2020 (cioè dell’anno scorso), ci si rende conto che stiamo parlando con qualcosa che purtroppo è in tragica continuità con il passato, il presente e il futuro di questo Paese. Intervistando Gregoretti e Scola, ho capito che Vicari era in piena tradizione e innovazione non soltanto del nostro cinema, ma anche della nostra società. E parlarne con loro mi sembrò più moderno che parlarne con qualche autore della stessa generazione di Vicari.

Cosa l’ha colpita di più, facendo le interviste ai due maestri, nel confrontarsi con un autore molto più giovane di loro?

R. L’intervista con Gregoretti fu interessantissima, perché autodenunciò il fatto che la sua generazione di avesse smesso di capire la società nella quale viveva, senza motivo apparente. Quella con Scola ribadiva la sua tipica ferocia, ma anche il suo entusiasmo per Diaz. Entrambi, riconoscevano un’eredità che loro stessi avevano lasciato in questo film, la quale, a sua volta, proveniva da Neorealismo. Un’eredità non stilistica, perché lo stile di Vicari è anche molto moderno, attualissimo, in continua ricerca ed evoluzione, diverso anche dallo stile della Commedia all’italiana e del Neorealismo, ma che era una “corrispondenza di amorosi sensi”, intesa come scelta di temi politici e sociali. Mi ha colpito come, parlando con Vicari, Scola e Gregoretti, sembrasse di parlare a tre coetanei, che formavano cioè una comunità di autori, senza differenze di età.

Facciamo un salto e parliamo del potere dell’immagine, del “vedere”, nel film di Vicari. ‘Vedere’ i fatti di Genova, attraverso Diaz, sconvolse tutti, alla sua uscita. ‘Vedere’ le torture di Santa Maria Capua Vetere sconvolge, oggi, tutti. Vorrebbe spiegarci il ‘potere dell’immagine’ che rende reali fatti di cui possiamo parlare e scrivere, ma che soltanto se ‘visti’ assumono un vero dato di realtà?

E’ vero, le dinamiche dell’abuso del potere che sfocia in violenza fisica diventa socialmente reale solo quando lo si vede. Quello che è successo a Genova nel 2001, così come quello che è successo nel 2020 a Santa Maria Capua Vetere, corrispondono alla ‘visione’ del cadavere tumefatto di Stefano Cucchi, ucciso di botte in carcere, a Roma. Questo genere di violenze sappiamo che succedono, sono successe. La differenza, in questi casi citati, è che li abbiamo potuti vedere coi nostri occhi. L’immagine è il valore aggiunto di Genova, perché tutta la quantità di materiale filmato in quei giorni ci fa rivivere quei momenti. Le fotografie che documentavano la lotta armata degli anni ‘70 in Italia, per essere più chiari, ci ripropongono frammenti di realtà. A Genova, abbiamo recuperato oltre 15.000 foto, più di 500 ore di girato e, inevitabilmente, abbiamo un racconto completo, minuto per minuto degli avvenimenti reali. Certo, non esiste ancora, e questo per me è assurdo, una Piattaforma che unisca e raccolga tutto questo materiale. Se ci fossero stati canali come Youtube, o telefonini fantasmagorici come i nostri, avremmo avuto ancor più materiale. Insomma, attraverso l’immagine in movimento è la chiave dell’entità delle violenze di Genova nel 2001, ma è anche la chiave della resistenza delle persone che manifestavano pacificamente, in quella violenza di Stato. Nessuno avrebbe creduto mai, se non ci fossero state tutte quelle documentazioni filmate, a quello che è accaduto, sia durante i processi, sia tra l’opinione pubblica.

Cosa è questo film per un ragazzo di 20 anni, oggi, che vede Diaz per la prima volta?

Banalmente, mi viene da rispondere che crede a ciò che vede. Non penso che avremmo creduto all’esistenza dei campi di concentramento nazisti senza l’intuizione degli americani di usare registi e macchine da presa per far vedere le fosse comuni, i forni e fino a che punto fossero stati ridotti a ‘cose tra le cose’ i sopravvissuti. L’immagine è il cardine della civiltà del nostro tempo. Senza, non avremmo in nessun modo preso coscienza di molti avvenimenti di quel ‘secolo breve’ che è stato il ’900. Da una parte, quindi, le documentazioni filmate sono la testimonianza suprema di alcune violenze incontrovertibili, dall’altra rappresentano l’unica grammatica che si sia realmente evoluta e che ha costruito un linguaggio nuovo. Ogni volta che sono cambiate le modalità di espressione e che si sono evoluti i mezzi e le epoche, cioè, lo abbiamo potuto constatare attraverso il cambiamento della grammatica delle immagini. Anche il banale evolversi dei mezzi di ripresa, ci fa capire quanto conti l’immagine in movimento. Se dovessimo mai pensare a un Diaz di oggi, le poche immagini di repertorio del film di Vicari le vedremmo filmate non tramite cineprese, ma tramite i telefonini. L’immagine in movimento, nel bene e nel male, è il nostro specchio ed è anche l’elemento comunicativo che maggiormente sfruttiamo, modifichiamo, strumentalizziamo e con cui chi vuole manipolare può benissimo farlo.

Tornando alle su due interviste, spesso questo film di Vicari viene accostato al neorealismo, lo abbiamo detto, o ad autori come Scola e Gregoretti, appunto, ma anche Petri, Rosi, Damiani. Vorrei invece parlarne con lei come di film da non paragonare ad altri. Diaz, preso in sé, autonomamente, che valore ha?

Su Diaz si commette un errore ricorrente. E’ un film ‘politicamente’ fondamentale per il cinema italiano, ma spesso viene schiacciato su questo significato. Non si è riusciti a dare un valore narrativo in sé a questo film e questo è un errore che abbiamo commesso anche noi, che ne abbiamo parlato e ne parliamo. Fino all’uscita di Diaz, voglio dire, sui fatti di Genova credo che l’arte sia stata estremamente passiva. Su Genova 2001, cioè, non esiste una Guernica (probabilmente perché non c’è un Picasso, certo): voglio dire però che il linguaggio cinematografico di Diaz, la sua scrittura, sono a un livello altissimo di sperimentazione, perché costruisce un percorso che ha 140 personaggi; diverse e molteplici linee narrative e temporali; un lavoro di montaggio che prima non si era mai visto, in Italia. Come prodotto autonomo, indipendente anche dalla storia che racconta, dal posto che ha trovato nella storiografia e nel rigore della sua peculiarità (perché si basa su atti processuali e sulla ricostruzione di fatti assolutamente reali), ecco, in sé, Diaz è un film completo, coraggiosissimo, attuale al punto tale da sembrare essere stato girato ieri. Per spiegarmi meglio: 10 anni fa, quando è uscito, era un film che metteva disagio, anche per la sua modernità di sperimentazione e di linguaggio cinematografico. Visto oggi, invece, toglie anche quel disagio, non solo per cosa dice, ma perché oggi lo si comprende meglio, per l’attualità del suo linguaggio.

Intervista ad Alfredo Falvo

Cosa ha scoperto, da ciò che lei stesso ha fissato nelle fotografie, di quel film?

Quando ero sul set facevo delle selezioni piuttosto rapide che mandavo poi alla mia agenzia, Contrasto, affinché le affinasse per poi consegnarle a Fandango. Il lavoro era enorme, anche dal punto di vista fotografico e, vista la varietà degli attori e degli ambienti, scattavo moltissimo e quando rientravo in albergo non avevo il tempo di fare una vera selezione delle fotografie. Per questo demandavo il compito all’agenzia. Poi, quelle fotografie sono state a riposo nei miei hard disk per 10 anni, finché qualche mese fa ho deciso di riguardarle tutte per bene. Eravamo nel periodo del lockdown, perciò il lavoro era poco e il tempo tanto. Mi ci sono voluti una decina di giorni per riguardarle tutte: si tratta di circa 10.000 fotografie fatte nell’arco di due mesi. E’ solo allora che mi sono reso conto della grandezza del film. Al tempo, ero preso dal lavoro quotidiano dell’andare sul set giorno per giorno, era uno dei primi film ai quali lavoravo come fotografo di scena, ero concentrato sugli scatti. Non mi ero reso conto che stavo facendo parte di qualcosa di enorme, di un film di questa portata. Rivedendo le foto, dopo 10 anni, sono rimasto stupito io stesso dalle immagini, da quello che raccontavano. Mi sono reso conto che in un certo qual modo sono documenti storici e che sono importantissime. Sono la documentazione giornaliera di quello che è stato fatto sul campo per due mesi, grazie a loro si capisce la dimensione del film e lo sforzo sovrumano che è stato necessario per portarlo a termine, da parte del regista in primo luogo, poi di tutti gli altri.

Perché è importante ricordare Genova 2001?

E’ importantissimo perché quello che è successo in quei giorni è stata un’interruzione della democrazia. Gli attacchi contro gli studenti erano stati pianificati, ma non solo: è stata usata la tortura come metodo di repressione. Penso che ricordare gli eventi negativi della storia sia sempre importante, per non ricadere negli stessi errori. Anche se poi spesso si dimentica troppo facilmente.

Com’è stato muoversi con la macchina fotografica su quel set polifonico, per un film polifonico, come lo definisce Pietro Montani nel suo saggio in volume?

Il set era enorme, perciò è stato un divertimento. E’ stata ricostruita in Romania l’intera strada della scuola Diaz, con tutti i palazzi. Un fotografo non potrebbe chiedere niente di meglio. Poi c’era tanta azione, adrenalina. Ma a volte, tra un ciao e l’altro, i tempi erano lunghissimi, come ad esempio nelle riprese dell’irruzione alla Diaz. C’erano centinaia, se non migliaia, di comparse quella notte perciò, prima che tutto fosse pronto per girare, è passava molto tempo. Era tardissimo, le comparse, vestite da poliziotti, negli intervalli si addormentavano ovunque e fotografarli era uno spasso. Dormivano a gruppi sui prati di lato alla strada, sdraiati sui marciapiedi, sulle sedie e perfino sui lettini delle ambulanze. Come si fa a non divertirsi su un set come questo? Ma è stato bello non solo dal punto di vista fotografico, è stato prezioso dal punto di vista umano. Tra attori e staff del film, eravamo in tantissimi e abbiamo formato un bel gruppo, ho dei bellissimi ricordi di quei due mesi.


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