Genova 2001 – Italia 2021, III parte. Intervista a Daniele Vicari

0 0

“Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere ”. Beppe Fenoglio, Una questione privata, (1963)

Pubblichiamo l’intervista a Daniele Vicari, terza tappa del viaggio dentro ‘i fatti di Genova’ del 2001, partendo dal libro Diaz (uscito lo scorso luglio ed edito da Fandango), per entrare nel film di 10 fa, nell’Italia di 20 anni fa, in quella di 30 anni fa, fino a oggi. Dopo le prime due conversazioni con Alberto Crespi (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-i-parte/) e Pietro Montani (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-ii-parte-pietro-montani-diaz-dont-clean-up-this-blood-il-film-polifonico-su-genova-2001/), ogni sosta di questo lungo viaggio riflette, insieme ai lettori, su come si sia arrivati a quel disastro di violenze e sospensioni dei diritti del 2001 e che ripercussioni abbia, oggi, ‘una certa tendenza’ della storia e della cultura italiane.

La negazione e la memoria a breve termine sono piuttosto frequenti nella Storia repubblicana d’Italia: da stazioni ferroviarie bombardate ad aerei esplosi in cielo, a falsi suicidi, a bombe in autostrada; dalla Massoneria alla Mafia (o meglio, ‘maffia’, come spiega Leonardo Sciascia in Il mare color del vino, 1973), dal Terrorismo a Tangentopoli, dal ventennio berlusconiano (durante il quale si verificarono i fatti di Genova 2001), sino all’interno delle carceri dove si perpetrano torture da parte di chi esercita il Potere di ‘sorvegliare e punire’, da sempre sino a oggi, tra un ipocrita sbigottimento e una gran voglia di dimenticare. Ci si imbatte spesso in grandi imbarazzi nella Storia d’Italia: ‘segreti di Stato’, fascicoli giudiziari scomparsi, mancate condanne ingiustificabili, avanzamenti di carriera di personalità istituzionali e delle forze dell’ordine ambigue, se non quando dichiaratamente colpevoli, malcelate sospensioni delle libertà, come la più banale di manifestare le proprie idee. Lo Stato dimentica. Meglio, argina, schiva, scavalla. Senza freni, senza un’opposizione che faccia il suo lavoro. Allo stesso modo, lo Stato commemora. Ed è tutto un celebrare senza memoria.

L’8 agosto scorso, per esempio, la RAI manda in onda uno Speciale sui fatti assurdi, le violenze, le umiliazioni imposte a migliaia di esseri umani, arrivati in questo Paese, quel giorno di 30 anni fa e rimandati in Patria, dopo un sequestro di massa e l’utilizzo delle forze dell’ordine non come garanti dell’ordine pubblico, appunto, ma in assetto militare. Il il 7 agosto 1991, una nave mercantile carica di zucchero proveniente da Cuba, si sta preparando a salpare da Durazzo verso Brindisi. Il colosso marino Vlora riprende il nome originario della città di Valona, ma è stato costruito sull’Adriatico italiano di Ancona. Straripante di esseri umani in fuga dalla fine impietosa di una Dittatura lunga e violenta, la nave raggiunge il Porto di Bari (rifiutata a Brindisi e costretta a deviare nel capoluogo pugliese), come nessun natante si è mai visto sbarcare tra le coste italiane. Rigurgita 20 mila donne, uomini, bambini, ballerini, attori, lavoratori, ragazzi, provenienti da uno dei paesi dell’Est rimasto senza futuro, dopo l’abbattimento del Muro di Berlino del 1989 e il gioco a Domino del crollo dell’URSS. L’ 8 agosto, in un caldo infernale, tra le acque salate di una nave dolce di zucchero cubano, Vlora arriva in Puglia, nell’incredulità dei baresi di fronte a uno spettacolo inverosimile eppure reale di quei grappoli umani appesi alla nave, e la gioia di chi si tuffa dall’imbarcazione, credendosi libero. Ma il Governo italiano (il settimo di Giulio Andreotti e il primo di un Presidente della Repubblica come Francesco Cossiga, verbalmente offensivo verso l’allora sindaco di Bari Enrico Dalfino che aveva tentato di salvare il salvabile senza successo, spietato verso un’enorme moltitudine picchiata e violata in tutti i modi), organizza prima la condanna fisica e morale e poi il rimpatrio di quelle persone disperate. Come fossero delinquenti, reietti, non gente per bene in fuga da miseria e caos.

La vergogna della Nave dolce (2012), come si intitola il film documentario che Daniele Vicari ha voluto girare contemporaneamente a Diaz (2012), racconta uno tra quei fatti più inquietanti e dimenticati (se non nel giorno dell’anniversario del loro accadimento), della Storia recente d’Italia. Perché le migliaia di persone che stavano su quella nave, una volta scese nella città italiana, vennero repentinamente raggruppate e segregate nello Stadio della Vittoria di Bari. Seguirono le violenze, le inutili rivolte dei cittadini albanesi, le repressioni delle forze dell’ordine italiane in assetto militare, le umiliazioni da parte del Capo dello Stato e il rimpatrio (su navi e aerei) rapido, immediato, per pulire il più in fretta possibile il sangue albanese. Solo 1.500 persone, sulle 20.000 salpate da Durazzo, riuscirono a restare in questa nostra Italia. Alcune di loro, hanno voluto raccontare quell’inferno.

Nella sincera conversazione con Daniele Vicari che segue questa lunga premessa, il regista racconta, tra i molteplici ragionamenti sui quali si potrà riflettere, perché abbia voluto far uscire contemporaneamente due storie come fossero due facce di una stessa medaglia: l’inizio del calvario degli immigrati in Italia (che prosegue senza tregua da 30 anni, tra indifferenze, leggi assurde e respingimenti forzati, violazione dei diritti di mare e di terra, torture, mercato di esseri umani, Mafie internazionali collegate tra loro, un Mediterraneo pieno di morti, così come le ‘rotte balcaniche’ di migranti in fuga da morte, guerre, terrore) e l’inizio del calvario di cittadini liberi, provenienti da tutto il Mondo per manifestare le loro idee, liberamente, e picchiati, umiliati e offesi tra le strade di Genova, nella Caserma di Bolzaneto, nella Scuola elementare Armando Diaz. Ma c’è molto di più, da leggere qui, riguardo questa “nave senza nocchiere in gran tempesta” che è l’Italia, sospesa nell’oscurantista estate del 2021.

Il partigiano Vicari

Che film è Diaz?

E’ un film libero. Lo è nei confronti del potere in generale. Del potere dello Stato e dei suoi apparati repressivi, così come lo è nei confronti della politica dei partiti e anche quella del movimento e delle sue verità “ufficiali”. Già, anche i movimenti hanno i loro portavoce che enunciano “verità” ufficiali e che, troppo spesso, diventano guardiani della memoria anziché agenti della comprensione. Poi è libero nei confronti dell’apparato produttivo-distributivo, infatti grazie al coraggio di Domenico Procacci è stato realizzato nonostante l’unanime no del cinema italiano, delle Major, dei distributori, delle televisioni. La più totale libertà il film se la prende però sul piano artistico, nella messa in scena della violenza estrema della polizia, che è rappresentata con un linguaggio cinematografico tale che non permetta alcuna immedesimazione in chi agisce violentemente. La violenza in Diaz non cede allo “spettacolo”, nel senso che non ammicca agli istinti primordiali dello spettatore per vendergli popcorn ma lo provoca, lo infastidisce, lo respinge anche, rappresentando e non edulcorando l’immenso dolore della riduzione a cosa dell’essere umano che tutti i regimi prima o poi perseguono, come ha fin da subito sottolineato Ettore Scola.

Cosa succede in Italia, a 20 anni da Diaz- Don’t clean up this blood?

Succede che tutte le questioni sul tappeto nel disastro di Genova2001 sono ancora lì, irrisolte. L’eredità del massacro cade sulle spalle delle istituzioni ma anche di alcuni settori e dirigenti del movimento che non sono stati all’altezza del compito a loro affidato da centinaia di associazioni. Ci sono ragazzi ancora in galera per un reato anacronistico quale è quello di “devastazione e saccheggio” dei quali si parla troppo poco. Poi è stata approvata una legge sulla Tortura, nel 2017, zoppicante e incerta. Imposta dalle sentenze della CEDU (Corte europea dei diritti dell’Uomo) all’Italia a seguito dei controversi processi per Diaz e Bolzaneto. E dopo 20 anni i cittadini si chiedono il motivo per il quale in questo Paese non si debba mai risolvere, concludere o semplicemente chiarire un problema reale. Continuiamo a parlare di stronzate anche dinanzi a tragedie come terremoti e pandemie. Ma per fortuna c’è anche tanta gente che non accetta questo andazzo.

Quindi, lei è un ottimista, per così dire?

Non direi, ma non sono convinto della tesi (che fa comodo a molti soggetti) secondo la quale il G8 di Genova 2001 avrebbe fermato definitivamente il Movimento. Penso piuttosto che la repressione praticata in quei giorni abbia smentito le tesi bislacche di alcuni settori del movimento stesso che isolando i cosiddetti “violenti” pensavano di avere libertà di manovra in piazza. Una stupidaggine colossale, come si è visto. Certo, i ventenni di allora che scesero in piazza con entusiasmo e puro spontaneismo hanno vissuto un contraccolpo fortissimo, ma tanti militanti hanno continuato a operare nelle situazioni di base, nei centri sociali, nei quartieri. Ci sono persone, in tutti i settori (e questo si è visto anche durante la pandemia), che sanno reagire alle catastrofi, alle situazioni difficili, senza per forza andare nei talk show a pontificare. A Genova, nel 2001, è stata sconfitta la linea politica della parte del Genoa Social Forum più mediatizzata. E’ stata smentita in particolare quella specifica linea politica “perbenista” che, in qualche modo, aveva mostrato grosse difficoltà nella chiave di lettura di ciò che sarebbe successo in piazza e che in effetti accadde. Certe dichiarazioni di alcuni portavoce che si spinsero ad accusare la polizia di non aver fermato “a casa loro” i cosiddetti Black Block, hanno tracciato un solco profondissimo nel movimento devastandolo ulteriormente sul piano politico.

Questa è una delle poche cose chiare a distanza di 20 anni. Tantissime persone, invece, a dispetto della repressione, hanno continuato a far crescere idee e azione in vari settori della società; mentre è andata completamente in frantumi, dopo il 21 luglio 2001, un’idea politicista (e secondo me ingenua) del rapporto tra istituzioni e movimenti. Concezione della politica che dinanzi a una forma repressiva tanto violenta come quella che c’è stata, non ha saputo mettere in campo strumenti idonei per reagire, limitandosi per 20 anni ad una forma di testimonianza mediatica inefficace e autocentrata. Adesso i 20enni di allora hanno 40 anni e credo possano trovare la forza per affrontare ciò che è accaduto con una certa lucidità. Per rispondere alla domanda, quindi, non sono necessariamente ottimista, ma a distanza di 10 anni dall’uscita, presentando Diaz, sia il libro che il film, in tanti luoghi diversi, ho potuto constatare che questi 40enni hanno voglia di comprendere. Per altro, quelli che allora avevano 20 anni e oggi 40 sono ancora giovani e hanno figli di 20 anni, che vengono coinvolti nel movimento: a Napoli, per esempio, nei giorni di protesta per il G20, c’è stata una partecipazione molto forte della generazione degli attuali 20enni. Quindi, adesso che (speriamo) finirà la pandemia, secondo me è possibile che si muova di nuovo un ampio settore della società e che si esca definitivamente dal politicismo, dal tatticismo, per entrare finalmente nel vivo delle questioni fondamentali, senza inutili capetti a dettare linee improbabili.

Pensa che ci sia una continuità tra il Movimento dei 20enni di Genova 2001 e il Movimento ambientalista dei nostri 20enni? Pensa che i ragazzi di adesso, vedendo il suo film e cosa è accaduto nella scuola Diaz e in tutta la città in quel luglio di 20 anni fa, abbiano le idee più chiare su come procedere alla ricerca di un futuro migliore, nel quale non si realizzi più una violenza tanto insopportabile quanto gratuita come quella?

Al di là del fatto che il film piaccia o meno, ripeto, chi vede Diaz ha gli strumenti per capire che se scende in piazza a difendere le proprie idee si trova dinanzi un “potere” che necessariamente reagisce, che non sta fermo e soprattutto non si comporta secondo i pregiudizi (buoni o cattivi) che ne abbiamo noi. Chi scende piazza è “avvertito”, conosce le possibili conseguenze, anche estreme, che si possono pagare, quindi deve saper agire nella maniera più efficace. Tra l’altro ora c’è una norma sulla tortura che, per quanto inefficace sia, ha introdotto una fattispecie di reato prima assente dal codice che ha prodotto la prescrizione dei reati più gravi nei processi Diaz e Bolzaneto.

L’attuale Legge contro la Tortura, in vigore dal 2017, è una conquista, senz’altro. Ma se si verificano episodi di violenza sconvolgenti, a Santa Maria Capua Vetere come in altre 18 carceri e con più forza durante il primo lockdown (e quindi dopo la affermazione della fattispecie di reato di tortura), non crede ci sia una quiescenza, una forma di delega, da parte della politica, a battersi per i diritti delle persone alle associazioni, nazionali e internazionali, che si occupano di diritti umani? E’ d’accordo sul fatto che queste violazioni, del passato e attualissime, siano del tutto esterne alla politica e a una sinistra che non svolge più il suo ruolo di difesa dei più deboli?

I partiti politici che stanno in Parlamento non hanno alcuna voglia, oltre che alcun interesse, a sollevare questioni di questa natura. Sono talmente dipendenti dai meccanismi istituzionali, per cui tutto ciò che sa di “movimento” è completamente fuori dalla loro portata, lo temono, e quindi non ci interagiscono più. Questo è il grave limite degli scampoli della sinistra parlamentare se si eccettua qualche caso eccezionale. Oggi, oltre a tutti i temi che poneva il Movimento all’epoca, che sono ancora sul tappeto (e anzi alcune cose sono peggiorate), è chiaro a tutti, dopo Seattle, Göteborg e Genova, che non si scende in piazza gratuitamente e che, se un movimento non ha una ‘Teoria dello Stato’ sono guai. Per ‘Teoria dello Stato’ intendo una conoscenza vera dei meccanismi che muovono gli apparati dello Stato in relazione ai sistemi politici specifici. E’ questa consapevolezza che farà la differenza tra un movimento consapevole e uno disarticolato e privo di un tessuto connettivo. L’idea che le multinazionali siano “cattive” e gli stati “neutrali” è risibile. Quindi credo che il prossimo movimento dovrà essere più maturo, quanto meno me lo auguro, perché altrimenti saremo costretti alla ripetizione di ciò che abbiamo visto a Genova magari in peggio, anche perché con la gestione della pandemia, se possibile, il deterioramento del complesso dei diritti civili ha fatto passi verso il peggio, non verso il meglio.

Vorrei chiarisse con maggiore precisione come questo suo film apra a nuove consapevolezze, utili a capire il passato e il presente, per affrontare il futuro

Come dicevo prima, Diaz è un film libero, che si è preso la libertà di dire fino in fondo ciò che andava detto sul modo in cui il sistema politico-istituzionale cosiddetto “democratico” ha reagito nei confronti di un movimento che poneva delle questioni serie. La sottotrama del film è il disegno del modus operandi delle nostre forze dell’ordine “sul campo di battaglia” che, come in una foto satellitare, mostra da lontano la sua complessità e mostruosità. Questa foto-rilievo disvela una tradizione profonda e radicata del nostro Stato, che non tollera alcuna forma di dissenso, nemmeno la più blanda. Spesso mi sono trovato a pensare che certi “estremismi” ricorrenti nel nostro paese possono essere la conseguenza proprio di questa rigidità, una impermeabilità ai cambiamenti e alle istanze di base. Siccome ho personalmente fatto parte a lungo del movimento, prima ancora di Genova, per me queste dinamiche sono molto chiare. Mi permetta una digressione: il motivo per il quale ho realizzato contemporaneamente La nave dolce (2012, documentario incentrato sulla migrazione di grandi masse di popolazione albanese in Italia) e Diaz (2012) è esattamente questo: secondo me, nei dieci anni che sono trascorsi tra il 1991 e il 2001 c’è stata una radicalizzazione di quest’attitudine repressiva di cui sto tentando di parlare. E’ una radicalizzazione della repressione, perché il crollo del Sistema politico con Tangentopoli ha lasciato spazio agli apparati dello Stato, i quali si sono fatti carico di fronteggiare direttamente il conflitto sociale. Prima di allora, il conflitto sociale era mediato dai partiti politici (DC, PCI, PSI…).

Vorrei fare un esempio per essere più chiaro: nel 1990, noi ragazzi della ‘Pantera’ (movimento studentesco diffusosi rapidamente tra il 1989 e il 1991 da Palermo, verso molti atenei e che aveva tra gli obiettivi dare vita a un metodo di studio sperimentale e di ricerca, contro il nozionismo delle lezioni frontali, oltre che la contrapposizione ad una visione neo liberale dello studio ndr. ) occupammo le università italiane. In quel momento, c’erano delle strutture di partito, grandi e piccole (c’era il PDS, ma c’era anche Democrazia Proletaria, come il Partito Radicale), ed erano ben radicate nel sistema sociale del Paese. Ecco, la ‘Pantera’ riuscì a far arrivare in Parlamento, sotto forma di interrogazioni, documenti elaborati dal movimento stesso. Questo significa che, allora, era possibile una minima permeabilità delle Istituzioni, attraverso i partiti politici i quali si facevano interpreti del conflitto sociale. Con l’avvento di Tangentopoli, e il crollo della così detta Prima Repubblica, gli apparati dello Stato, la Magistratura e la Polizia hanno cominciato a fronteggiare in maniera diretta, scavalcando completamente la fase politica, la società e le sue esigenze. Se lo fa la Magistratura, lo fa ovviamente con gli strumenti della Legge; se lo fa la Polizia, lo fa con strumenti militari. Questo ha portato, di fatto a una ‘ri-militarizzazione’ della Polizia. E questa era la cosa peggiore per un Paese che ha già prodotto una dittatura durata vent’anni. Inoltre, questa ‘ri-militarizzazione’ ha causato un arretramento dell’applicazione dei principi costituzionali. Questa è la mia personale analisi. Quando, nel 2001 il Movimento si stava preparando per Genova per il G8, io, individualmente, ho tentato di fare questo discorso dentro al Movimento stesso, ma in quel Momento prevalevano delle posizioni “pseudo pacifiste” che rifiutavano completamente questo tipo di analisi rispetto alle istituzioni. Queste posizioni sono diventate egemoniche all’interno del Movimento e hanno impedito che si scendesse in piazza con una capacità di organizzazione seria e anche di difesa degli stessi cortei. Lo hanno impedito perché praticano un rifiuto anche di tipo psicanalitico dell’organizzazione. Tutto ciò, a fronte di uno Stato che ha fatto un passo indietro dal punto di vista della gestione dell’ordine pubblico, ha contribuito a quel disastro che abbiamo vissuto a Genova nel 2001. Dieci anni dopo ho avuto l’esigenza di fare contemporaneamente La nave dolce e Diaz, perché entrambi individuano il nodo della trasformazione dello Stato in macchina meramente repressiva, che adotta schemi di ordine pubblico dinanzi a qualunque insorgenza sociale. Ciò ha prodotto per esempio l’incancrenimento della vicenda della Val di Susa. Dentro al movimento, uno dei temi da affrontare al G8 per me era proprio questo arretramento, questo annichilamento dei processi democratici, ma il Movimento non era in grado di affrontare questa realtà, perché era troppo divisiva, così ci si è nascosti dietro il dito di un legalismo asfittico, che ha portato alcuni dirigenti del Movimento stesso a fare dichiarazioni incredibili. Per esempio, si è arrivati a dire che dentro la Scuola Diaz non c’erano i Black block, ma solo “noi” come se, qualora ci fosse stata la presenza degli anarchici nella scuola, l’azione della Polizia sarebbe stata in qualche modo legittima. Per questo motivo, non appena uscì il film, nel 2012, dichiarai che se ci fossero stati 93 nazisti, lì dentro la Diaz, avrei fatto esattamente lo stesso film.

Mi sono preso la libertà di raccontare cosa ritenevo fosse necessario raccontare di quella vicenda. Tutte le analisi ulteriori (Genova è frutto di errori di comunicazione tra i reparti della Polizia; c’era una “super cupola” internazionale dei poteri occulti che ha voluto fermare il Movimento a Genova; Gianfranco Fini era presente nella Caserma di Genova mentre accadevano i pestaggi, quindi è lui che dava gli ordini; … ) analisi che prese singolarmente, a mio avviso hanno poca forza. Quello che ha incontrovertibilmente senso invece è ciò che è accaduto sotto gli occhi di tutti: la repressione è stata praticata in maniera sistematica e spietata, cosa che si evince platealmente dal modo in cui le forse dell’ordine sono intervenute, tanto per le strade, quanto nella Scuola Diaz e a Bolzaneto. Che differenza fa se sia stato Fini o Carlo Magno ad “ordinare” la repressione? La vicenda di Genova2001 ha posto problemi anche agli organi preposti alla tutela del cosiddetto “stati di diritto”. Uno dei motivi per cui la CEDU ha deciso di condannare l’Italia, è che in assenza del reato di tortura come fattispecie di reato nel codice non c’è alcun deterrente a queste forme di repressione violenta. Ma quella legge non è sufficiente e Santa Maria Capua Vetere lo dimostra, perché sappiamo tutti che le leggi vanno interpretate e applicate. Ammesso che questa norma sulla tortura del 2017 sia effettivamente applicabile.

Pare che stiano tentando di applicarla, ma è una norma timida. Tutti sanno che andrebbe disarticolato il dispositivo repressivo generale che serve unicamente a perpetrare una tradizione repressiva dello Stato che non ha alcun senso ai giorni nostri, se mai lo abbia avuto in passato. Lo Stato italiano si è fondato sulla repressione di movimenti nati spontaneamente contro l’unità nazionale. È più o meno la storia della nascita di ogni stato nazionale, qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso ed è stato sottomesso o eliminato, come è accaduto con i nativi nordamericani. Le fucilazioni di massa dei Briganti nel meridione d’Italia, per dire, erano legittimate dall’urgenza di costruire uno Stato unico nazionale. Però, certe inclinazioni autoritarie si sono incistate nella nostra stessa cultura istituzionale, negli apparati repressivi di Stato come la Polizia ma anche nei manicomi (fino e oltre Basaglia) e a volte anche negli ospedali. Con il Tso è ancora oggi possibile la pratica della tortura (vedi il caso Mastrogiovanni), cioè la tortura è una forma mentis oltre che un modus operandi; tutto questo si esasperò col Fascismo che faceva largo uso di certi strumenti coercitivi e con l’avvento della Costituzione non è per niente evaporata la pratica della tortura, anzi è rimasta sottotraccia e ogni tanto riemerge nei momenti in cui ci sono movimenti sociali o fenomeni anti sistema. Ogni qual volta si costituiscano movimenti di massa, lo Stato italiano reagisce perché si sente in pericolo, o magari perché all’interno degli apparati dello stato ci sono persone che ideologicamente sono antidemocratiche. A Genova anche questo si è visto, c’erano poliziotti che avevano cellulari con suoneria il motivo “Faccetta Nera”. I torturatori a Bolzaneto hanno detto e fatto cose con riferimenti specifici a ideologie che dovrebbero essere al bando e perseguite dalla stessa polizia, in generale e per espressa volontà della nostra Costituzione, oltre che della legge Mancino e simili. E invece tutto questo è tollerato se non voluto.

Alla luce del discorso politico che ha appena fatto, riformulo la domanda iniziale: cos’è Diaz?

Come ho detto, è un film libero perché ha avuto modo di dire tutto questo, in assoluta libertà senza influenze di alcun potere. La libertà va praticata, non è uno slogan, ogni regista deve lottare contro la più subdola delle censure cioè l’autocensura, che è figlia della paura a volte e più spesso dell’opportunismo. È per questo che ringrazierò sempre Domenico Procacci di aver creato le condizioni per le quali questa libertà si dispiegasse fino in fondo, che poi è anche una libertà espressiva, incarna un punto di vista artistico, una idea di cinema: se si vuole raccontare una storia d’amore, c’è bisogno di certi strumenti espressivi, ma se si vuole raccontare una storia come Diaz c’è bisogno di altri strumenti espressivi e questi strumenti non vanno sempre incontro ai desiderata del pubblico e alle necessità dell’industria dell’intrattenimento. È anche su questo fronte che ci assume fino in fondo la propria una responsabilità.

Qual è l’utilità di un film come Diaz, considerando il fatto che, a proposito del rispondere ai desiderata del pubblico, Diaz è stato criticato per un certo ‘indulgere’ nella violenza, in scene ripetute, dettagliate, lunghe sulle violenze fisiche di quella notte nella scuola?

Le persone che fanno questo tipo di rilievo al film, temo siano le stesse che si inchinano di fronte a una cinematografia che racconta quasi esclusivamente storie di gangster che stuprano, ammazzano, devastano, per comprarsi una macchina o avere una bella casa e bei vestiti per le proprie donne-schiave. Una volta si chiamavano “sepolcri imbiancati”. Non bisogna per forza aver studiato la storia del cinema per vedere che la messa in scena della violenza praticata della Polizia nel film è volutamente “asettica” e respingente. Ripeto: nel mio film la violenza è rappresentata con un linguaggio cinematografico che non permette l’immedesimazione nella violenza stessa, perché non rimuove la tragicità dell’atto violento, ma la lascia sgorgare dall’azione. E questa è la vera differenza tra Diaz e altre opere che, del tutto legittimamente, e a volte magistralmente, fanno della violenza una forma di propaganda ideologica, commerciale, spettacolare, cioè un modus operandi per ottenere un risultato che può essere intrattenere il pubblico, vendere una idea di mondo, divertire. Io stesso nel mio piccolo ho fatto film “di genere” utilizzando gli stilemi del genere, come Velocità Massima e non escludo di farne ancora. Se sono legittimi questi approcci perché non dovrebbe esserlo quello di Diaz?

Semplicemente se si vuole godere di uno spettacolo innocuo Diaz non è il film giusto, infatti a chi mi dice che non ha avuto il coraggio di vederlo io rispondo che ha fatto bene, perché devi essere disposto a scendere all’inferno con i torturati di Diaz e Bolzaneto per vederlo e le popcorn è meglio non prenderle, perché ti vanno di traverso.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21