Genova 2001-Italia 2021, I parte

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Proponiamo un lungo viaggio, che durerà tutto il mese di agosto con cadenza settimanale, dentro i fatti di Genova 2001, dentro questa Italia di oggi, dentro il film Diaz, don’ t clean that blood (2012), dentro il libro edito da Fandango, Diaz (luglio 2021). Per non dimenticare il passato, per gestire nel modo più dignitoso possibile il presente, per affrontare il futuro politico, etico, estetico, cinematografico cinematografico, con consapevolezza, lontano dalle vergone e dalle violenze di Stato che, fino a oggi, non si interrompono.

Le riflessioni dettagliate e sfaccettate di Alberto Crespi, Pietro Montani, Daniele Vicari, Alfredo Falvo e Boris Sollazzo sui fatti di Genova di 20 anni, sul film Diaz – Don’t clean that blood (2012) e sul libro edito da Fandango, Diaz (luglio 2021), portano questa redazione a scegliere di pubblicare ciascuna intervista singolarmente, in una sorta di lento viaggio dentro quel momento indiscutibilmente vergognoso della Storia d’Italia, dentro questa nostra Italia attuale, dentro il cinema, la politica, l’estetica, l’immagine filmica e fotografica, e alla scoperta della partecipazione emotiva e politica di registi senza tempo come Ugo Gregoretti ed Ettore Scola, alla prima visione di Diaz.

Un percorso a puntate, dunque. Si inizia qui, con l’intervista ad Alberto Crespi, il quale ha dato un taglio preciso, deciso, spietato sul cinema, su Diaz, su cosa rappresenta questo film, in questo Paese.

Dopo l’attenta analisi di Crespi, si entrerà nel senso etico del movimento New Global e nel peso estetico di questo film ’stereoscopico’, come definisce Diaz il professore, filosofo e critico cinematografico Pietro Montani; si proseguirà con un’intervista tutta politica, ponderata parola per parola, a Daniele Vicari sulla libertà del film che ha potuto e voluto realizzare 10 anni, sui fatti di 20 anni fa, con uno sguardo attento all’oggi e al domani. Si concluderà con l’attento, ironico fotografo di scena Alfredo Falvo che ha immortalato la difficile costruzione di un film come Diaz e con un’intervista a Boris Sollazzo, il quale racconterà della potenza visiva di Diaz e della contemporaneità indiscutibile tra due autori come Gregoretti e Scola, e Vicari, uniti da un senso non comune di cinema civile, rivolto sempre verso l’uomo.

Pubblichiamo queste conversazioni lontano dai giorni del 2001 a Genova, affincrestino e vengano ricordati al di là delle necessarie e doverose commemorazioni del luglio scorso.

Il libro Diaz. Fatto uscire dalla Fandango il 15 luglio 2021 (cioè a pochi giorni del disastro di Genova, dopo 20 anni), ripropone la potente scomodità del regista Daniele Vicari che entra con verità, dolore e passione in uno tra i fatti più osceni verificatisi in Italia, dal dopoguerra in poi. Il libro contiene lo story bord; le foto di scena di Alfredo Falvo; due interviste sul film fatte da Boris Sollazzo a Ettore Scola e a Ugo Gregoretti; due saggi del critico cinematografico Alberto Crespi e del professore di Estetica dell’Università La Sapienza di Roma, Pietro Montani; uno scritto della sceneggiatrice, Laura Paolucci; un intervento del regista e uno del produttore, Domenico Procacci, a testimoniare la necessità di non dimenticare, nonostante gran parte della Storia, a volte vergognosa di questo Paese, rimuova se stessa, continuamente. Il film di Vicari passa di memoria in memoria, di generazione in generazione, affinché l’assenza di coscienza di chi abusa del Potere resti impressa, nel tempo.

Alberto Crespi: “Un film che dà un ordine mentale al caos reale di Genova e ‘fa il contropelo alla Storia’ ”.

D. Il film di Vicari, oltre che ricordare che i fatti di Genova non devono essere dimenticati a distanza di 20 anni dal loro accadimento, ci mette di fronte all’attuale spaesamento della società verso gli abusi che si continuano a perpetrare in questo Paese da parte di chi esercita il Potere e ne abusa. Per fortuna, non è sempre così, ma quello che accade in almeno 18 carceri, oggi, segnala una perdita consistente dello Stato di Diritto. Riferendosi alla lunga sequenza dell’attacco della Polizia nella scuola di Genova, scrive nel suo saggio in volume, che ci si sente sporchi’, della sporcizia di assistere a un massacro gratuito. Vedendo Diaz, oggi, sente ancora quella sensazione? Più in generale, quella sporcizia, in questo Paese, è stata lavata? Che Paese è l’Italia, guardando un film di 10 anni fa, che ricorda i fatti di 20 anni fa, ma sembra girato oggi?

R. Personalmente percepisco ancora in modo fortissimo quella sporcizia. Il paradossale “appello” del sottotitolo del film – Don’t clean that blood – è stato rispettato. Le recenti notizie su Santa Maria Capua Vetere, per quanto mi riguarda, mi hanno precipitato di nuovo nel 2001 ed è terribile pensare che in questi vent’anni questo tipo di violenza non è sicuramente scomparsa, è stata probabilmente un fiume carsico che ogni tanto riemerge, quando ci sono testimoni che hanno il coraggio di parlare o telecamere che riprendono ciò che non dovrebbero. Ammetto che di fronte alle notizie di Santa Maria Capua Vetere mi sono ingenuamente chiesto: ma possibile che costoro siano tanto idioti da perpetrare simili gesti sapendo di essere ripresi? Proprio Daniele Vicari, a un recente incontro al Festival della Legalità che ho coordinato a Fregene lo scorso 15 luglio, mi ha aperto gli occhi: non è stupidità, è impunità, delirio di onnipotenza o molto più banalmente la sicurezza di farla franca perché l’input arriva dall’alto. Io ho la sensazione che lo Stato di Diritto, in questo paese, venga violato di continuo – anche in episodi minimi – anche perché non fa parte del nostro DNA, molti italiani non lo percepiscono come qualcosa di inviolabile, forse molti non sanno nemmeno cosa significhi. Io vedo simili violazioni anche nelle manifestazioni dei No-Vax, in queste deliranti “difese” di una “libertà” che invece è solo egoismo e individualismo sfrenato. Vedo una violazione dello Stato di Diritto anche nel delitto di Voghera, nella folle idea che un rappresentante delle istituzioni possa avere un’arma carica con sé e possa usarla.

D. Nel suo saggio in volume, affronta diversi aspetti propriamente cinematografici del film di Vicari. In particolare, importante è l’ accostamento che fa tra Diaz e la gratuità della violenza del genere horror: così come l’horror tende le corde emotive dello spettatore con una violenza del tutto gratuita, inaspettata, improvvisa e di cui non si conosce la fine, allo stesso modo Vicari ha saputo creare una tensione quasi ingestibile, in chi guarda, tanto più perché racconta fatti realmente accaduti e che, nella realtà, sono stati anche più cruenti di quanto il film mostra. Alcuni, hanno contestato una certa ‘ostentazione’ della violenza a Vicari. Cosa risponde a chi vede nella potenza ‘ovvia’ dell’ ‘immagine pura’ scelta da Vicari un’ostentazione e non quello che sta dietro quella stessa violenza?

R. È un tema antico che percorre la critica cinematografica almeno dai tempi di Arancia meccanica, film che quest’anno compie 50 anni. Ma anche da prima. Sottopongo due citazioni. Nel 1967 fece scalpore in America un film intitolato Bonnie and Clyde (in Italia Gangster Story) in cui Warren Beatty e Faye Dunaway interpretavano i famosi fuorilegge del tempo della Depressione, Clyde Barrow e Bonnie Parker. Il film era diretto da Arthur Penn e per l’epoca conteneva un erotismo sommerso e una violenza esplicita difficilmente sostenibili (visto oggi, è roba da educande). In particolare venne rimproverata a Penn la famosa scena finale, in cui i corpi di Beatty e Dunaway vengono colpiti, al rallentatore, da decine di pallottole con il sangue finto che schizza dovunque. La scena dura meno di un minuto e, al confronto di Diaz, ripeto, è una passeggiata… Ma ogni epoca ha i suoi standard, la rappresentazione del sesso e della violenza ha sempre un limite oltre il quale il gusto comune fatica ad andare. I limiti di Bonnie and Clyde verranno superati da Il mucchio selvaggio di Peckinpah nel ’69 e da Arancia meccanica, appunto, nel ’71. Ebbene, cosa diceva Arthur Penn in quei giorni? In un’intervista sul «New York Times» dovette affrontare la consueta domanda sull’incredibile (per allora) quantità di scene violente: «Il problema della violenza, in molti film, è che non è abbastanza violenta. Un film di guerra che non mostri gli orrori della guerra, i corpi straziati, di fatto glorifica la guerra». La famosa critica Pauline Kael, che difese con i denti il film, era totalmente su questa linea: «La sporca realtà della guerra – non le allusioni, ma il sangue, i buchi delle pallottole – è necessaria… Bonnie and Clyde ha bisogno della violenza, la violenza è il suo vero significato» (Brian Kellow, Pauline Kael. A Life in the Dark, Viking, 2011). Tutto ciò avveniva negli anni del Vietnam e la soglia della violenza si stava spostando anche in tv. Oggi noi viviamo nell’epoca dei social e dell’informazione diffusa, le immagini sono dovunque, è impossibile sfuggire.

Secondo argomento della domanda. Secondo me, il cinema di genere ha avuto un ruolo importante nel rappresentare la violenza e i lati oscuri dell’Italia, e nel denunciarli in modo direttamente politico. Faccio solo due esempi: il western italiano e il cosiddetto “poliziottesco”. I western di fine anni ’60 sono i veri film sessantottini del nostro cinema, e non penso solo a Sergio Leone ma anche ai western di Sergio Sollima o di Sergio Corbucci (sì, si chiamavano quasi tutti Sergio…) o a Quien sabe (1966)? di Damiano Damiani. Il primo vero film sui misteri italiani è La polizia ringrazia , diretto da Stefano Vanzina che per l’occasione volle firmarsi per esteso, nome e cognome, e non con il suo consueto pseudonimo, Steno. È un film del ’72 in cui si immagina (immagina?) una polizia “parallela” che elimina delinquenti e oppositori con metodi spicci, senza incorrere nei “lacciuoli” della giustizia. Sono gli stessi anni dell’ispettore Callaghan…

D. Nel suo saggio, dichiara l’ amore per questo film, capace di fare ‘il contropelo alla Storia’ come diceva Benjamin. La non linearità della Storia, cioè, si ripropone nella costruzione filmica di Diaz, nella quale prima si mostrano le atroci violenze, poi si mostra come il Potere istituzionale e delle forze dell’ordine abbiano ordito quel massacro. Il disordine non lineare del progredire temporaneo sconvolge la percezione dello spettatore e lo spinge a fare quello sforzo critico che ogni forma d’arte dovrebbe fare, per avere una funzione sociale. Alla fine del saggio, però, scrive: “Bisogna trovare le cose, le idee dove stanno, e spesso qualcuno le ha messe in disordine per renderle incomprensibili. Film come Diaz servono a tentare di districare il disordine in cui ci fanno vivere”. A mio parere, la grandezza di Diaz sta nell’audacia di lasciare tutto in disordine e amplificare le domande dello spettatore, dopo la visione. Ci spiega cosa intendeva dire?

R. Ci provo… Sì, Diaz lascia le cose in disordine. A cominciare dalla scelta (secondo me giusta) di non fare i nomi, di non citare Berlusconi, Fini, Scajola o chi per loro. Però, secondo me, alla fine le molte domande che il film pone, e che induce noi spettatori a porci, a nostra volta, sono il primo passo per mettere ordine nel disordine. Parlo di ordine mentale, della necessità per noi cittadini di cercare di capire cosa è successo. In questo senso Diaz dà anche delle risposte: che magari per chi si è informato, ha letto articoli e libri, si è interrogato su quei giorni sono scontate; ma non è detto lo siano per tutti. Ad esempio (cito a memoria): mi pare si veda in maniera lampante che le spranghe e gli altri oggetti contundenti, che dovrebbero “provare” come la Diaz fosse un covo di anarco-insurrezionalisti, vengono portate dentro dalla polizia. Quello è un dato, incontrovertibile, e il film lo mette bene in chiaro.

D. Nel suo saggio in volume cita il libro di Enrico Deaglio, Patria, 1978-2008 (2009), che ha magistralmente ricostruito alcuni pezzi della Storia italiana, con una precisione certosina. Pensa che Vicari, sia stato davvero in grado di mettere a nudo quelle violazioni dei Diritti delle Persone e di Trattati internazionali in modo corretto, cinematograficamente parlando? Secondo lei, un film come Diaz “serve” ancora, ai cittadini di questo Paese? E se sì, come?

R. Serve assolutamente. Come serve l’ultimo film di Vicari, Il giorno e la notte. In quest’ultimo (quello girato durante il lockdown) secondo me Daniele ha avuto un’idea molto forte: raccontare il lockdown dandogli – nella finzione – un motivo che non c’entra nulla con la pandemia. Si dice che è in corso un possibile attacco terroristico. Indirettamente il film ci dimostra che siamo per così dire “predisposti” al lockdown – senza per quello insinuare che il covid sia stato inventato per provocare la cosiddetta “dittatura sanitaria”, idea che a mio parere è fra le più stupide mai sentite. Credo che Diaz abbia rappresentato plasticamente e visivamente un momento in cui invece le istituzioni italiane abbiano coscientemente sospeso lo Stato di Diritto per stroncare un movimento che, pur con ingenuità e magari errori, poneva dei problemi veri, e tutt’altro che risolti, anzi. Senza per questo negare che dall’altra parte ci fossero delinquenti e provocatori (mi riferisco ai Black Bloc ovviamente).


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