Si è spento nel silenzio, al termine di una malattia che lo aveva privato persino della dignità, Gerd Müller, uno degli attaccanti più forti di sempre, il panzer tedesco per antonomasia, il mito che aveva sfidato gli Azzurri nella semifinale dell’Azteca a Città del Messico e condotto il Bayern Monaco ai successi a ripetizione degli anni Settanta.
Non potevamo accettare che se ne stesse in un letto a dormire, immobile, in attesa della fine, un personaggio che era stato l’icona stessa del dinamismo e del movimento, un rapace d’area come ne sono nati pochi, sempre pronto a timbrare la marcatura e autore di una montagna di reti nel corso di una carriera esemplare. Non a caso, proprio Lewandowski, da alcuni considerato il suo erede, qualche mese fa decise di rendergli omaggio, dopo aver raggiunto il suo record di quaranta gol in un solo campionato (poi superato una settimana dopo), esibendo una maglietta con su scritto: “Forever Gerd”. Una dedica bellissima e particolarmente sentita e significativa.
Gerd Müller non era particolarmente bello a vedersi ma efficacissimo. Non puntava sullo spettacolo ma su una concretezza da avvoltoio, tanta era la sfrontatezza con la quale si avventava su ogni pallone, trasformando l’area di rigore nel suo feudo e i difensori avversari nelle vittime sacrificali della sua irriverenza. Non aveva i colpi del fantasista, non era Maradona e nemmeno Pelé, ma quando c’era da vincere era sempre al posto giusto, puntuale come un orologio svizzero, teutonico in tutto e per tutto, implacabile e determinato a imporre a chiunque la propria legge.
Il gol era la sua vita, la sua fede, la sua ragione di esistere. Segnava in ogni modo, con ogni mezzo, sfruttando la propria agilità e delle doti fisiche di cui pochi fuoriclasse sono stati dotati nel corso della storia. Quando scendeva in campo, sapevi già che la sua squadra partiva con almeno un gol di vantaggio perché Müller era una garanzia, non guardava in faccia a nessuno e una rete la segnava quasi sempre, salvo poi dilagare in alcune circostanze, non lasciando ai rivali neanche le briciole.
Sportivamente parlando, non aveva pietà, non conosceva compassione, non si fermava fino a quando non aveva raggiunto il proprio obiettivo, andando avanti come un caterpillar e non badando a record o soddisfazioni personali, in quanto nella sua mente contava solo la squadra, il collettivo, la grandezza corale che prevaleva sulla spontaneità e sul talento dei singoli.
Era un figlio della “Germania anno zero”, della disperazione e del Muro di Berlino, uno di quei ragazzi dell’Ovest che nell’estate del ’61 avevano visto il loro Paese diviso a metà per ragioni più grandi di loro, senza potersi in alcun modo opporre. Era un figlio della generazione che da noi ha conosciuto il boom e da loro altri sacrifici, altre privazioni, altre prepotenze. Eppure era in campo, a testa alta, il 17 giugno del ’70, e segnò anche una doppietta, prima di doversi arrendere ai colpi di Riva e di Rivera, alla classe sopraffina della difesa italiana, alle parate di Albertosi e alla sapienza tattica di Valcareggi. Era in campo, tuttavia, anche quattro anni dopo, nell’epifania casalinga dei tedeschi, quando i panzer ebbero la meglio sull’Arancia meccanica di Cruijff e compagni, forse troppo belli e spensierati per poter essere pure vincenti.
Gerd Müller ha incarnato le speranze e le tribolazioni di un decennio: era il ritratto di una certa Germania, l’autobiografia di una nazione inquieta che aveva continuamente bisogno di riscattarsi e di trovare nuovi stimoli, assetata di gloria e in perenne lotta con se stessa e con i propri demoni.
Ci ha detto addio a soli settantacinque anni, ma già da tempo non esisteva più. Ora lassù ha ritrovato Burgnich e Facchetti: non potrà resistere alla tentazione di sfidarli ancora.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Piera Degli Esposti e Gianfranco D’Angelo. Com’è triste questo agosto 2021!
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