I più anziani di noi c’erano, più o meno bambini, in quella indimenticabile estate del 1960. Chi come me ha avuto la fortuna di nascere a Roma e di vivere in quei giorni nel quartiere Flaminio ha impresse nella sua memoria le immagini di felicità di chi, piccolo e con tutta la vita davanti, vedeva solo vincere, crescere, sorridere, costruire. L’Italia usciva dal dopoguerra e entrava a vele spiegate – con l’oscar delle monete alla lira- negli anni del boom economico, insomma, nel futuro.
In queste ore quel ricordo viene evocato con ragionevoli motivazioni. E con comprensibili speranze che le generazioni più anziane devono in qualche modo infondere in quelle più giovani. Cercando di pensare positivo.
Le circostanze della storia ci sono tutte, e la storia non sbaglia, è storia, appunto. Sta finendo una guerra, e il dopo sarà anche questa volta lungo, serviranno anni, lo sappiamo. Ma tutto, in modo un po’ cabalistico, va nella direzione del paragone con Roma ’60. Perfino lo spazio, dove allora stava per essere lanciato il primo uomo, e dove adesso sono stati sperimentati i primi cosiddetti voli turistici, ci parla di analogie con quegli anni.
C’è però un punto cruciale nell’analisi delle analogie ma anche delle differenze con sessanta anni fa: al netto delle speculazioni edilizie e del clientelismo, quella rinascita economica, che culminerà nel decennio successivo (quello che sbagliando si continua a identificare solo con gli anni di piombo e non gli anni dei diritti) era basata sul principio del miglioramento della vita per tutti e della diminuzione delle diseguaglianze.
E’ questo il dramma dell’oggi. Nessuna rinascita economica e sociale potrà essere possibile se non si partirà dal problema di colmare l’abisso di diseguaglianze creato soprattutto dalla globalizzazione e dall’uso spregiudicato della rivoluzione digitale. Nessun paese rinasce, nessun paese è veramente libero se non ci sono alla base pari opportunità per tutti. Sappiamo perfettamente che non si può costruire una società tutta uguale, ma un livello medio di vita e di dignità e l’opportunità di salire e di conquistare qualsiasi traguardo questo si, dobbiamo pretenderlo.
Di questo ci parlano moltissimo le medaglie olimpiche italiane. Storie di riscatto, storie di eguaglianza conquistata, storie di volontà e di comunità, maturate in varie regioni del nostro paese, trainate da comunità che ci hanno creduto, che hanno faticato, che si sono inventate palestre, piccoli stadi, allenamenti familiari.
Il successo dell’Italia a Tokio dovrà servire per capire meglio tutto questo. Perché per stare meglio tutti, e il Covid ce lo ha tragicamente spiegato molto bene, dobbiamo tutti essere più simili, più vicini nelle abitudini, nello stile di vita, nel poter partire alla pari nella corsa per la vita. La storia ci dice che nel 1960 questo era davvero uno degli obiettivi e che c’è stato un tempo in cui i sogni diventavano realtà, come l’autostrada del sole su cui viaggiamo ancora oggi che fu costruita in quattro anni, come l’aeroporto di Fiumicino che fu costruito in sei anni perché arrivavano le Olimpiadi, come la via Olimpica dei romani sulla quale si continua a stare in fila perché altre strade per certi posti non ci sono. Colmare le diseguaglianze oggi forse è più difficile, ma non impossibile, ma bisogna porselo come primo obiettivo trainante di tutti gli altri.