Agosto e i suoi drammi, agosto e le sue ferite, agosto e le lacrime che non abbiamo il coraggio di piangere nel resto dell’anno. Agosto ci ricorda date significative, ad esempio l’anniversario dell’inizio della costruzione del Muro che per ventotto anni ha diviso Berlino, simbolo della Guerra fredda e di un’Europa che portava ancora addosso i traumi e le ferite della Seconda guerra mondiale.
Berlino e l’irrisolta questione tedesca costituivano, infatti, un problema planetario, nel contesto di una separazione che era, al contempo, geografica, politica e diremmo quasi ontologica fra Est e Ovest. Da una parte la NATO e la sfera d’influenza americana, dall’altra la Cortina di ferro e la sfera d’influenza sovietica. In mezzo, un’Europa che cercava faticosamente di affrancarsi dai propri demoni e di trovare la propria identità, a quattro anni dalla firma dei Trattati di Roma che avevano dato vita alla CEE, in una delle stagioni più feconde dal punto di vista della rappresentanza politica. Quel Muro, emblema di una separazione senza speranza e di un equilibrio fragile da consolidare con la forza, ha costituito, dunque, una battuta d’arresto nel processo di integrazione europea che solo la fisiologica conclusione del “Secolo breve”, purtroppo in realtà lunghissimo, ha consentito di affrontare, senza tuttavia riuscire a dar vita a quell’unione d’intenti di cui avremmo bisogno per guardare al futuro con ottimismo. Abbiamo fatto l’Unione economica ma manca ancora quella politica e, soprattutto, manca una compiuta cittadinanza europea, con distinzioni che si sono ulteriormente acuite nell’ultimo decennio a causa delle tre crisi che hanno investito il Vecchio Continente e mandato in soffitta le effimere certezze nelle quali ci eravamo crogiolati negli anni successivi alla riunificazione tedesca.
Fra un mese e mezzo sapremo che volto avrà la Germania post-merkeliana e i timori di una nuova instabilità, mentre la Francia si appresta a vivere, a sua volta, una lunga e incerta fase elettorale, sono più che fondati.
Quanto al giudice Antonino Scopelliti, rappresenta al meglio le ferite di una terra magnifica ma straziante come la Calabria.
Scopelliti e le sue inchieste, Scopelliti e la sua lotta strenua contro la criminalità e le sue logiche perverse, Scopelliti e la sua solitudine, Scopelliti in lotta contro i misteri insondabili che da sempre affliggono il nostro Paese, Scopelliti che oggi piangiamo, al pari dell’imprenditore siciliano Libero Grassi, anche lui assassinato trent’anni fa, ma che all’epoca non fummo in grado di capire e di difendere adeguatamente.
Una volta affermò: “Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, solo con la fede cui si è spesso aggrappato come naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso”.
Queste morti avvolte nel mistero, queste sofferenze che investono in pieno il Sud del nostro Paese e richiamano alla memoria le gravi pecche di un’unificazione mai davvero avvenuta ci parlano ancora della necessità di ricucire lo Stivale e renderlo più omogeneo e meno diseguale.
Diciamo che le lacrime sono sempre tardive, talvolta ipocrite, in molti casi false, in qualche circostanza addirittura disdicevoli, perché provenienti da persone che non hanno mosso un dito, pur potendo fare molto, per rendere migliori le condizioni di vita e di legalità di vaste aree d’Italia.
Siamo qui, a distanza di trent’anni, con il nostro dolore e i nostri perché. Increduli, smarriti, attoniti, ancora in cerca di risposte che chissà se arriveranno mai.
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