Lo scorso giovedì 5 agosto il consiglio dei ministri ha dato il via libera ai decreti attuativi di importanti direttive europee recepite dalla legge di delegazione approvata lo scorso aprile. Vi è quella, assai nota, inerente al diritto d’autore. Se ne è parlato e scritto molto. Tema di prima grandezza, che interessa vasti mondi della cultura e dell’editoria. Non mancano insidie per la libertà della rete, ma queste ultime rischiano di essere surclassate da vicende enormi come il caso di Pegasus o delle frequenti attività di hackeraggio. Tuttavia, non si possono sottovalutare le meno celebrate disposizioni contenute nel decreto legislativo applicativo della direttiva sui servizi media audiovisivi (SMAV).
In verità la rubrica se n’è occupata diverse volte, a cominciare dalla fase ascendente del testo ancora in discussione nelle sedi di Bruxelles e di Strasburgo. Eravamo nel 2017, ma il grido di dolore non fu ascoltato. Ora che siamo al dunque qualche voce si è sentita.
Ricapitoliamo. Il recepimento costituiva l’occasione, come del resto sottolineato dall’articolo 3 della legge, per rivedere il Testo unico della radiodiffusione del 2005, varie volte ritoccato e , da ultimo, considerato non più attuale nel punto riguardante gli incroci tra televisione e telecomunicazioni dalla Corte di giustizia di Lussemburgo. Niente di tutto questo. Anzi. Il ministero dello sviluppo, competente per materia, ha fatto una consultazione pubblica lampo. Per capirci, sentì dal vivo gli operatori il martedì per chiudere nel consiglio dei ministri il giovedì.
Il partito democratico ha pensato bene di depositare un curioso testo (n.3211, depositato alla camera dei deputati il 16 luglio) in cui, per eliminare il vulnus determinato dalla decisione della Corte di giustizia, si tolgono proprio i limiti, delegando le decisioni all’autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Evidentemente, essendo prossima l’intesa tra Fininvest-Mediaset e Vivendi da cui originò la vicenda, la materia si è prontamente annacquata.
Quel che resta del giorno, rubando il titolo al famoso film, è presto detto. Per un verso, si disciplina la pianificazione delle frequenze con il pieno ricorso ad un latinorum ambiguo e complicato, tale da richiedere l’assistenza di un collettivo di ingegneri.
Vi sono, poi, due capitoli di fortissima attualità, densi di rischi e di conseguenze. Si permette ad una radio locale di irradiare il segnale fino a ricomprendere il 50% della popolazione nazionale. In sostanza, si abolisce la storica differenza con le catene nazionali. Pare una misura pensata per un ristretto ma potente gruppo di stazioni, che i maligni vorrebbero in orbita Mediaset. Del resto, nulla di nuovo sotto il cielo, perche il settore sembra sfasato nel tempo, essendo rimasto fermo alle logiche dell’età berlusconiana e ai patti del Nazareno.
La prova provata viene dalla parte sugli affollamenti pubblicitari. Qui si rintraccia una piccola e tuttavia emblematica autobiografia della nazione: l’eterna subalternità agli interessi delle imprese del tycoon di Arcore.
Se già il testo europeo era discutibile, siamo ora di fronte ad una declinazione italiana. Gli affollamenti pubblicitari per ora di trasmissione salgono per i privati dal 18% al 20%, regalino non indifferente, mentre la Rai è presa di mira. Peggio, sembra quasi che si vorrebbe costringere il servizio pubblico ad assumere comportamenti (dumping, svendita degli spot) tipici del periodo d’oro della pubblicità degli anni ottanta-novanta del secolo scorso. Si sancisce che l’azienda può toccare il 12% per ora, mantenendosi – però- dentro il vincolo del 6% tra le 6 del mattino e le 24. Tradotto: si spalmino pure gli spot, ovviamente a costi bassi, nelle ore meno commerciali, per spianare la strada alla concorrenza. L’effetto collaterale inesorabile diventa, così, proprio la discutibile pratica degli sconti messa sotto accusa nella commissione parlamentare di vigilanza. Non a caso, l’amministratore delegato Fuortes ha chiesto una discussione complessiva sulle risorse.
E non si dica, per favore, che ce lo chiede l’Europa.