Dieci anni fa si verificava, sull’isola di Utøya, la mattanza di settantasette giovani iscritti al Partito Labourista norvegese, falciati dai colpi di un estremista di destra, Anders Behring Breivik, il quale vedeva in quella generazione festosa e progressista un pericolo mortale per le sue idee malate. Comprendemmo allora la grandezza di quel popolo, in un Paese che aveva come pena massima la condanna a ventun anni di reclusione e che non concepiva neanche l’ergastolo. Restammo sgomenti anche di fronte all’autobomba, posta sempre da Breivik, a Oslo, davanti ai palazzi del governo, a testimonianza dell’instabilità di un pianeta in cui ormai si erano già fatte strada le idee più deleterie e pericolose per la convivenza civile.
Utøya, a dieci anni di distanza, costituisce la nostra utopia spezzata, il nostro rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Perché in questi dieci anni l’Europa ha vacillato e molte delle speranze di quei ragazzi non hanno trovato un approdo, a cominciare dal rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Stavano partecipando a un campus organizzato dalla sezione giovanile dal loro partito: chissà quanto talento, competenza e visione del mondo abbiamo perso a causa di quella disumana follia! Eppure, non possiamo rassegnarci all’abisso: dobbiamo a quei ragazzi la battaglia contro ogni forma di orrore, dobbiamo loro il progresso che avrebbero voluto veder trionfare, dobbiamo loro un’altra idea di Europa, specie dopo la pandemia che ha sconvolto il mondo, e dobbiamo loro, ora più che mai, la lotta contro ogni forma di sopruso e di intolleranza, in un continente sempre più chiuso e incapace di comprendere il proprio ruolo nel contesto contemporaneo.
Dieci anni e la sensazione atroce di aver perso dei coetanei, dei fratelli, ragazzi che leggevano i nostri libri e coltivavano i nostri stessi ideali, giovani perbene, idealisti, meravigliosamente ingenui, magari destinati a una grande carriera, magari no, ma comunque rappresentativi della parte migliore della nostra società.
Dieci anni e abbiamo ancora il cuore in gola, ripensando a quelle immagini, ai deliri di un assassino senza dignità, alla civiltà di una Nazione speciale e allo shock che provammo, collettivamente, al cospetto della nostra vulnerabilità. Utøya, infatti, ci ha posto di fronte alla fragilità del nostro tessuto sociale. Oggi, se vogliamo, le tensioni sono addirittura aumentate, il che dovrebbe indurci a riflettere sull’importanza delle parole e sulla necessità di batterci contro ogni forma di odio, perché l’odio genera i Breivik e i Breivik generano morte e distruzione ma, soprattutto, ed è il loro vero obiettivo, riescono a renderci di gran lunga peggiori.
La pandemia della ferocia non è stata per nulla sconfitta e, a dire il vero, non è stato ancora trovato alcun vaccino.
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