Quarantacinque anni fa una nube tossica di diossina si levò dall’ICMESA di Seveso, segnando un confine netto fra il prima e il dopo. Fu, infatti, l’addio definitivo all’Italia del boom e alle sue fole, alla speranza di uno sviluppo industriale continuo e irrefrenabile, e l’ingresso sulla scena del tema ambientale. Fu la fine delle illusioni e delle speranze basate su inquinamento, stupro del paesaggio e, in alcuni casi, amianto e assassini simili, portatori silenziosi di morte per perseguire unicamente il profitto di pochi a scapito della salute e della vita stessa di intere città.
Non fu gestita bene la vicenda di Seveso. Non fu fatto tutto ciò che si sarebbe potuto fare per distruggere la diossina e le soluzioni adottate, oltre a essere piuttosto costose, hanno lasciato comunque sul terreno un pericolo costante. Certo, ora lì c’è un parco e anche i volti butterati dei bambini sono tornati a sorridere grazie ai passi avanti compiuti dalla chirurgia estetica; fatto sta che quella devastazione ci è rimasta dentro e non se n’è più andata. Quarantacinque anni dopo, difatti, il tema della salvaguardia dell’ambiente, della necessaria coesistenza fra profitto e benessere, dall’ILVA al Petrolchimico di Marghera, è diventato un caposaldo del nostro dibattito pubblico, nonostante la pressoché totale assenza della sinistra e le brame di potere e di denaro di un mondo industriale che non ha ancora capito dove stia andando il mondo. Da noi la Thunberg è considerata, al massimo, una simpatica ragazzina con le trecce, con molti buoni propositi, una discreta dose di ingenuità e qualche saggia intenzione: una figurina, un santino da esibire per darsi un tono e sfruttare la simpatia popolare che sempre desta la gioventù, specie quando manifesta un minimo di impegno politico. Chi ne segue concretamente le idee e i valori, invece, è ritenuto un utopista, un acchiappanuvole, un sognatore senza futuro, un povero scemo, parliamoci chiaro, destinato a soccombere di fronte alle “magnifiche sorti e progressive” di una crescita smodata che, in realtà, è squallore e regresso. Eppure Seveso è rimasta lì, con la sua nube, i suoi ricordi atroci e la sua orribile percezione di una forza soverchiante e incontrollabile, a ricordarci i nostri limiti, la nostra finitezza umana, la nostra miseria morale e il nostro vuoto.
Seveso, a quarantacinque anni di distanza, ci parla ancora di tutte le storture di un modello insostenibile, incompatibile con la dignità umana e contrario al principio stesso dello sviluppo, in quanto si tratta di uno sviluppo impossibile, feroce, talmente disumano da condannare l’intera comunità alla resa.
Quarantacinque anni e quella cartolina dall’inferno, con l’inizio dei decenni di recessione, di un modello economico devastante e di una continua cancellazione dei diritti dei lavoratori, è più viva e presente che mai. Sta a noi trasformarla nell’esempio di ciò che non dovrebbe accadere per nessun motivo al mondo, nel “mai più” di cui abbiamo bisogno per liberarci da un sistema che ci conduce dritti nel baratro, nell’emblema dell’avidità che ha reso invivibile il pianeta.
Quarantacinque anni e mille domande che sono rimaste inevase. Solo quando avremo il coraggio di guardarci dentro e provare a rispondere almeno ad alcune di esse potremo ricostruire una sinistra e una prospettiva auspicabile per il domani. Fino a quel momento, ci resteranno solo la rabbia e le lacrime.
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