«Senza il video su SM Capua Vetere sarebbe prevalso il silenzio». Intervista a Stefano Feltri, direttore di Domani

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Un giornalista che è fedele al suo scopo si occupa non solo di come stanno le cose, ma anche di come dovrebbero essereteneva a sottolineare Joseph Pulitzer, un signore che di insegnamenti nel campo dell’informazione ne ha tramandati parecchi.
E l’inchiesta  esclusiva sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere del quotidiano “Domani”, che grazie a Nello Trocchia ha dato un cocente buco – come si usa dire nel gergo giornalistico – ai concorrenti, rappresenta plasticamente il principio cardine del grande maestro di giornalismo.
Un lavoro complesso, investigativo, quello dei cronisti del Domani, con implicazioni che hanno avuto risvolti inquietanti.
Ne abbiamo parlato con il direttore Stefano Feltri.

Come è stata costruita l’inchiesta su SM Capua Vetere e quali difficoltà avete dovuto affrontare?

«Quando Nello Trocchia ha portato le prime notizie, a settembre 2020, abbiamo capito che era una vicenda esplosiva, dalle potenziali ripercussioni politiche e istituzionali importanti. Però c’era molto da lavorare e serviva tanta  pazienza, che Nello ha avuto, nel coltivare le fonti, nel parlare con tutti i protagonisti, nel chiedere versioni ufficiali che poi si sono rivelate semplici bollinature di un depistaggio in corso. A un certo punto abbiamo capito che c’era anche un video delle violenze, ho detto a Nello che era una priorità assoluta recuperarlo perché con le immagini nessuno avrebbe più potuto ignorare lo scandalo. Nello è un mastino e alla fine ce l’ha fatta. Ci tengo però a ricordare il silenzio dei grandi media e delle televisioni mentre noi raccontavamo, in quasi totale solitudine, quello che era successo a Santa Maria Capua Vetere. Poi è arrivato il video e tutto è cambiato».

Avvertite il peso di portare avanti un impegno che va oltre il giornalismo?

«Io credo che l’impegno civile di chi fa giornalismo si declini nell’essere sempre un contropotere e mai una stampella del potere, anche quando al potere ci sono persone di cui magari condividiamo le idee o che conosciamo bene. Non ho mai avuto fiducia nel giornalismo di militanza, che considera i giornali soltanto un terreno di battaglia della politica o uno strumento di costruzione del consenso. Noi siamo un contropotere, non un pezzo del potere. E cerchiamo di dimostrarlo ogni giorno, abbiamo fatto inchieste su Conte, Letta, sui ministri del governo Draghi, sulla Lega, ma anche sul Pd, sulle grandi aziende e su quelle piccole, su Confindustria e sui sindacati…  Abbiamo i nostri valori e li rivendichiamo, ma tra questi non c’è la fedeltà a una parrocchia politica o a un leader. Questo approccio non è piaciuto a tutti, mi hanno detto che certe notizie era meglio pubblicarle in un altro momento o non pubblicarle affatto. Ma non è così che lavoriamo a Domani. Quando Carlo De Benedetti ha voluto un nuovo giornale e mi ha proposto di dirigerlo, mi ha chiesto solo due cose: indipendenza e impatto sulla discussione pubblica».

Vi siete mai sentiti ‘imbavagliati’, intimiditi?

«No, so che il presidente dell’ordine dei giornalisti ha avuto da ridire, ma personalmente la cosa mi lascia del tutto indifferente. Ci sono magistrati che indagano su come escono le notizie, immagino sia un atto dovuto, ma per fortuna nella vicenda di Santa Maria Capua Vetere ci sono anche magistrati e carabinieri che hanno avuto il coraggio e la professionalità per mettere sotto inchiesta altri pezzi dello stato. Però sì, di intimidazioni ne riceviamo, soprattutto querele penali e cause civili, da parte di politici, imprenditori, manager di stato e delinquenti di ogni risma. Per colpa di una legge vergognosa che permette al primo che passa di costringere un giornale a pagare avvocati e perdere ore di lavoro prezioso, siamo costantemente sotto assedio. Ai tanti campioni del garantismo a gettone, quelli che si scandalizzano se ogni tanto un politico viene condannato, non interessa che la stampa libera sia sotto tiro. Le azioni civili sono il vero problema, non le minacce verbali».

Quanto è difficile portare avanti un giovane quotidiano in una fase di profonda crisi, per l’informazione?

«Molto, perché il canale tradizionale di diffusione del giornalismo, l’edicola, è in sofferenza per colpa di decenni di politiche miopi, oltre che per un fattore generazionale che sta facendo perdere l’abitudine all’acquisto delle copie cartacee. E online non va molto meglio, i destini dell’intero settore sono in mano a poche piattaforme che decidono, con piena e opaca discrezionalità, le regole del gioco. Mi riferisco in particolare a Google e Facebook. Molti editori si sono venduti per un piatto di lenticchie, e hanno cercato intese con le piattaforme digitali nella speranza di compiacerle e prolungare per un po’ l’agonia. Noi siamo nati da poco e abbiamo puntato tutto su un’unica risorsa: i lettori. Stiamo costruendo una comunità, non una lista di clienti. Dopo un anno, i risultati si vedono, abbiamo migliaia di abbonati, ma anche sostenitori che donano pochi euro ai progetti di giornalismo di inchiesta, abbiamo una posta dei lettori vivacissima, ci apprezzano, ci criticano, propongono. E poi abbiamo un parco di collaboratori che ormai conta centinaia di persone che partecipano al progetto Domani non certo per arricchirsi  – paghiamo quello che possiamo, che è sempre poco per il lavoro che c’è dietro – ma perché credono che questo paese possa anche essere un po’ migliore di come lo vediamo ora. E il primo passo per migliorarlo è costruendo un discorso pubblico informato e articolato, che quanto proviamo a fare tutti i giorni».


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