Miracoli visivi, tra esistenze in bilico

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Ritorno all’infanzia

“The father”, di Florian Zeller, Fra-G.B., 2020.

“The father” non è un film psichiatrico, nè tantomeno l’esposizione, seppure commossa, di un caso sanitario. E’ un racconto sull’Alzheimer intesa come rivelatrice delle nostre paure nascoste di sempre, cartina di tornasole di un vissuto rimosso e che ci torna indietro implacabile e senza alcuna pietà, come in passato i fantasmi di Bergman o Tarkovskij. Florian Zeller, regista e drammaturgo, fa muovere lo straordinario Anthony Hopkins dentro un camera movie in cui lo spazio cangiante diventa metafora della metamorfosi mentale e il tempo filmico della malattia si disvela, progressivamente e impercettibilmente, fino al perfetto finale del tragico ritorno all’infanzia a cui, inconsciamente, aneliamo da sempre tutti (Freud ci ricorda che l’uomo è un bambino costretto a crescere).

Un film, due film

“I migliori anni della nostra vita”, di Claude Lelouch, Fra, 2019.

Claude Lelouch, ovvero del cinema che vuole essere cinema. Per tutti noi, spettatori privilegiati, assiepati dinnanzi allo schermo della verità. Il dialogo che il regista francese attiva con lo spettatore non è soltanto generazionale. Va oltre i confini del tempo reale. “Un uomo, una donna”,1966, racconta di un amore improvviso, quello tra Anne e Jean-Louis (prodigiosi Trintignant e Aimèe), vissuto come in presa diretta, senza trama, solo osservando ciò che accade. “I migliori anni della nostra vita”, 2019, ideale conclusione del film precedente, chiusura dello schermo e della vita insieme, diventa finzione palese per essere reale finale di partita. Beckett è umanamente spietato ma la cinepresa di Lelouch su Anne e Jean-Louis lo è ancora di più. Come raccontare ciò che finisce se non mettendo in scena volti segnati, piegati dal tempo, presenti nel ricordo di ciò che li ha definiti, per sempre. Lo sguardo del regista è quello di Dio, ci segue ovunque, ci dice tutto di noi, fino in fondo. Jean-Louis, 50 anni dopo, smemorato e assente, non sa che chi ha davanti è Anne, ma non importa perché quella sconosciuta lo “guarda”, lui se ne accorge e vive un ultimo attimo ancora. Perché è nello sguardo presente, senza dopo, che sta la sintesi del cinema, quello necessario, che non inganna. Anne sa tutto e noi con lei, segreto condiviso, emozionante e risolutivo. Nel trionfo della cinepresa che accarezza, si muove libera, scruta e cattura ogni piccolo gesto, che vive di corpi che si incontrano mutati, alla meta, nella verità ultima, prima della parola Fine.

Una ragione per vivere

“I giorni contati”, di Elio Petri, Ita, 1962.

Cesare ha 53 anni, fa l’idraulico, ha da poco perso la moglie e si ritrova solo e consapevole di non aver mai vissuto. Ha qualche risparmio, smette di lavorare e prova a vivere. Ma non ci riesce, perché il vuoto incombe, e con esso il pensiero fisso e ineludibile della morte. Vaga senza meta per giorni in una Roma assolata e spettrale nell’anima. Si muove per luoghi “vitali”, come l’aeroporto e lo stabilimento balneare, ma l’unico sentimento che prova è la consapevolezza della sconfitta. Anche il ritorno al paese natio, o l’incontro con l’ex amante sono solo occasioni per farsi del male. Il ritorno al passato è impossibile, acuisce il presente e rende ancora più dolorosa la sua infelice condizione. Cesare si fa carico di aiutare una giovane conoscente nei guai, ma i soldi non bastano e per averne rischia di finire invischiato nei traffici della malavita romana. Senso di paternità mancata, boom spietato e scomparsa dei legami sociali. Il film è anche questo. Alla fine, Cesare è costretto a ritornare al lavoro, metafora della costrizione, della vita mai scelta, dell’impossibilità di uscire dalla prigione della propria esistenza. Niente si inventa, tutto è già deciso da tempo, dal tempo e nel tempo, che si interrompe per lui, all’improvviso, su un tram, al ritorno dal lavoro. Il controllore accerta l’accaduto. Capita. Normale. Alla fine, accettiamo tutto, anche l’inaccettabile, è insieme la grandezza e il limite dell’uomo. Grande nel pensiero e nei sentimenti, fino a concepire Dio, piccolo nella sua fragilità materica. Leopardi è sempre dietro l’angolo. Petri si muove fra libertà della cinepresa regalatagli dalla Nouvelle Vague per cogliere l’immediatezza del vivere, pedinamento desichiano- zavattiniano (vedi il palese rimando a “Umberto D.”, nell’aiuto alla giovane bisognosa), esistenzialismo bergmaniano (filtrato dal bianco e nero funzionalmente abbacinante del grande Ennio Guarnieri) e alienazione antonioniana (la noia come condizione rivelatrice), in una sintesi prodigiosa che gli consente di regalare al cinema italiano uno dei massimi capolavori di sempre. Salvo Randone non recita, vive dentro il film, che è altra cosa….


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