Le vitali incertezze della giovinezza
“Racconto d’estate-Un ragazzo, tre ragazze”, di Eric Rohmer, Fra, 1996.
Nel terzo episodio dei suoi racconti sulle quattro stagioni, Rohmer si inoltra nel sole dell’estate. Lo schermo è sempre chiaro, talvolta abbacinante, quasi a voler far risaltare i mille dubbi e le tante incertezze del giovane Gaspard. Studente di matematica, il protagonista si dibatte in un teorema sentimentale da cui non riesce a districarsi, con tre variabili sentimentali, Margot, Solène e Lena, tanto casuali quanto ricercate. Giunto per le vacanze sulle coste della Bretagna, in attesa di rivedere Lena, che ama, rimane intrappolato anche in Margot e Solène. L’indecisione di Gaspard è frutto dell’amore di Rohmer per Kant, il suo non volere scegliere nasce dalla volontà di non rinunciare alla diversità della realtà, della vita. Ognuna delle ragazze è una costruzione irrinunciabile di sé e dell’altro(a). E’ incredibile pensare che Rohmer abbia girato questo film di ventenni a 75 anni, con una maestria assoluta nell’ entrare nelle psicologie dei suoi giovani protagonisti attraverso una una scorrevolezza dialogica che lascia esterrefatti. Non è soltanto la sua capacità di raccontare la giovinezza a lasciarci basiti ma, soprattutto, la maestria della messinscena, il suo muovere la cinepresa dentro un contesto di sentimenti che sembrano nascere sul momento e vivere di forza propria, spontanea, naturale. Rohmer tra tutti i protagonisti della Nouvelle Vague è quello più legato alla letteratura e alla filosofia, dunque alla parola, ma per suo stesso dire il suo è un cinema muto, dove i gesti e gli sguardi bastano a dire tutto. E ti sorprendi nel vedere il suo ineffabile occhio proiettare sullo schermo giovani che si avvicinano alla vita con lo stupore e i tormenti che gli sono propri, fra silenzi e sospensioni che non hanno eguali. Sì, Rohmer è l’incarnazione del mistero del cinema evocato dal suo ideale allievo Bernardo Bertolucci nel suo ultimo meraviglioso scritto-testamento.
La nobiltà della dignità
“Durante l’estate”, di Ermanno Olmi, Ita, 1971.
A Milano, c’è un insegnante di mezza età che si guadagna da vivere lavorando per una casa editrice come illustratore. Insoddisfatto dai limiti imposti dal titolare alla sua fantasia, egli si diletta ad attribuire titoli nobiliari a persone che ha conosciuto per caso e per lui meritevoli di tali onoreficenze solo per la semplicità, onestà e dignità che traspare dai loro volti. I beneficiati lo ricompensano con poco, che il professore accetta riluttante. Fra questi nobili d’animo c’è anche una ragazza di cui il protagonista, goffo e impacciato, si innamora, attribuendole per questo il titolo di principessa. Un giorno, il figlio di un neoaristocratico della dignità pensa che il professore si sia voluto approfittare del padre per estorcergli del denaro. Trascinato in tribunale, il nostro protagonista sarà difeso solo dalla sua principessa. Condannato, verrà condotto in carcere. Nel finale, lo vediamo salutare, dalla grata della sua cella, la giovane passata di lì a trovarlo. Sembra proprio una favola questo piccolo grande film di Ermanno Olmi. Un re dell’onestà che dispensa titoli nobiliari secondo un giudizio morale che si limita ad esaltare la bontà del prossimo. Ma il lieto fine non c’è. Non è contemplato da un mondo che si preoccupa, oramai, solo di elargire meriti a chi fa del profitto il proprio scopo e che non prevede più elogi a chi si mostra soltanto uomo, senza, peraltro, aspettarsi niente. Chi si permette di premiare tutto ciò non può che essere escluso, chiuso, incarcerato, pena il sovvertimento di un ordine che non ammette deroghe né sentimenti. Il grande maestro bergamasco continua il suo excursus nella società contemporanea post boom economico, siamo nel 1971, e in una simbolica Milano estiva, vuota di valori e non soltanto dei tanti vacanzieri che l’hanno momentaneamente abbandonata, fa muovere il suo poetico e stralunato protagonista in una realtà che egli soltanto abita, senza alcuna volontà dimostrativa o oppositrice, soltanto facendo ciò che egli reputa naturale fare. Accetterà tutto, anche il carcere, non passivamente, ma come il risultato di una vita che egli vive dignitosa solo così, in questi termini. Più è disarmante il volto del professore dispensatore, più è forte e severo il messaggio di Olmi. Il suo è un ammonimento, che non si perderà nel vuoto della contingenza storica, ma di cui rimarrà una eco per quando l’uomo avrà capito… E come non vedere un legame tra questo film e un altro capolavoro di Olmi, soltanto in apparenza lontano da questo, “Il mestiere delle armi”, del 2001, dove il protagonista, Giovanni dalle Bande Nere, il condottiero della cavalleresca arma bianca, non si arrese alla disumana polvere da sparo e da questa venne, perciò, ucciso. Vittima ma nello stesso tempo testimone di un mondo che non voleva piegarsi alla logica della forza cieca all’onore. Sconfitto ma per sempre vincente. Come il professore che sorridente saluta dalla sua cella la sua giovane principessa…
La memoria e il presente
“Un’estate d’amore”, di Ingmar Bergman, Sve, 1951.
Marie danza, il suo corpo non conosce limiti fisici, ma la sua mente è stata segnata dalla scomparsa, 13 anni prima, in un banale incidente, del suo giovane amore Henryk. Ricevuto in camerino un plico con dentro il diario di Henryk, Marie, in una giornata senza prove, si allontana per raggiungere quella zona di mare dove aveva vissuto intensamente i suoi giorni d’amore, che rievoca in maniera struggente, come solo la potenza della memoria consente di fare. Tornata in città, e riprese le prove, Marie ha un colloquio con il suo maestro di danza che, accortosi della sua segreta sofferenza, la incoraggia a riappropriarsi della sua vita. Ella consegna il diario di Henryk a David, un giovane giornalista suo spasimante. Marie accetterà di condividere la sua vita con lui soltanto se questi, dopo averlo letto, vorrà ancora esserle accanto. E questo David farà. Marie uscirà, così, finalmente, dalla sua prigione, da quel muro che aveva alzato al mondo in nome di un amore fantasmatico che era diventato soltanto sofferenza, egoismo ed avversione verso tutto e tutti. In quello che lo stesso Bergman considera, con “Prigione”, uno dei suoi primi film compiuti, emergono tanti dei temi che torneranno nell’opera a venire del genio svedese. I fantasmi del passato, la pulsione vitale, il bisogno del confronto con se stessi, anche spietato, la rassegnazione al destino che ci sovrasta e da cui non si uscirà mai senza compromessi con il quotidiano, per quanto doloroso possa essere. Insomma, quel pessimismo bergmaniano che impone di fare i conti con una realtà che ti chiede di prendere o lasciare. Il tutto immerso in una ambientazione, quella del mare del Nord che, secondo i modelli segnati dal suo maestro Sjostrom, Bergman fa diventare protagonista nel disegnare lo stato d’animo della protagonista, immersa in una memoria impossibile da cancellare e in un presente che, simboleggiato dal mare ancora lì pronto a riaccoglierla, si presenta carico di ragioni umane ma anche di debolezze e ambiguità. E’ così che Bergman dà il via al suo grande racconto senza soluzioni del genero umano.