Quando il movimento per la giustizia globale cominciò a prendere forma – al primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre, nel gennaio 2001 – non c’erano giornalisti italiani presenti, se non il sottoscritto e Fabio Gavelli, entrambi all’epoca cronisti di provincia al Resto del Carlino. Eravamo lì nei nostri giorni di ferie. Seguivamo da tempo – da lontano – i primi passi di quell’esperienza di alternativa globale al modello di sviluppo dominante: l’insurrezione neo zapatista in Chiapas (1994), la rivolta di Seattle (1999) ma anche le nuove persuasioni e sperimentazioni maturate nei movimenti sociali dell’America latina, nelle reti del commercio equo solidale, nel mondo emergente delle Ong, nelle forme più avanzate dell’ecologismo… La fase nascente del movimento non faceva però notizia. L’interesse dei grandi media cominciò a manifestarsi solo dopo Porto Alegre, quando il G8 di Genova, previsto per il luglio successivo, fu indicato come l’occasione principale per rendere visibili in Europa le ragioni che avevano spinto i partecipanti al Forum di Porto Alegre a coniare lo slogan: Un altro mondo è possibile. Il movimento si proponeva come unica reale alternativa al modello di società plasmato dal neoliberismo.
L’interesse dei grandi media, tuttavia, più che sulle idee e le competenze del movimento si concentrò sull’evento genovese e sull’allarme che fu immediatamente lanciato. A Genova, dissero subito governi e osservatori vari, ci saranno scontri e violenze di piazza, l’ordine pubblico dovrà essere garantito con un vasto schieramento di polizie e misure straordinarie. E così fu. Per mesi si parlò principalmente di frange violente dei manifestanti pronte a tutto, della necessità di blindare la città, della dubbia credibilità del movimento nel suo insieme. Come una profezia che si autoavvera, l’opzione muscolare scelta dal governo italiano d’intesa con gli altri del G8 sfociò in ciò che sappiamo: una sospensione delle garanzie costituzionali con pochi precedenti in Europa e un’impressionante catena di abusi di polizia, fino alla pratica estesa della tortura.
Sui media – anche sui grandi media – è stato raccontato molto, soprattutto nell’immediato, degli innumerevoli falsi e abusi commessi dalle forze dell’ordine, eppure negli anni successivi al G8 l’attenzione giornalistica per le difficili inchieste e i complicati processi sui fatti più gravi avvenuti nel luglio 2001 – l’omicidio di Carlo Giuliani archiviato rapidamente da un Gip, le torture alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto – è stata a dir poco intermittente e spesso viziata da un malcelato fastidio per il coinvolgimento nel processo Diaz del gotha della polizia di stato, assai stimato dalle grandi firme del giornalismo italiano, e a rischio d’essere decapitato (come poi è avvenuto nel 2012 una volta passate in giudicato le condanne, con l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici).
È un fatto che l’eccezionale gravità delle violenze e dei falsi sistematici attuati dalle polizie a Genova non ha suscitato grandi desideri di approfondimento da parte dei maggiori media. Le impressionanti cacce all’uomo viste in strada, le cariche ingiustificate, i colpi d’arma da fuoco, i selvaggi pestaggi alla Diaz, le torture, per non dire dei cori fascisti ascoltati da decine di testimoni, non hanno spinto a realizzare vere inchieste sulle polizie, sui loro vertici, sulla formazione degli agenti, sul loro vissuto, sulle culture che attraversano gli apparati di sicurezza. Nel luglio 2001 migliaia e migliaia di cittadini hanno vissuto un’esperienza scioccante nel contatto con forze di polizie uscite dai canoni propri di un regime democratico, ma nessun autentico sforzo di comprensione profonda di quanto accaduto è stato compiuto. Non dai media, non dalla politica e nemmeno dalle stesse polizie: né i vertici né i sindacati – involuti in una logica autoreferenziale – hanno voluto indagare e mettere a nudo il proprio malessere.
È stato necessario aspettare le parole dei giudici della Corte europea per i diritti umani per avere una rappresentazione tanto cruda quanto realistica dei fatti e misfatti di Genova: la Diaz come un caso di tortura e non un “sanguinoso blitz”; i vertici di polizia che “ostacolano impunemente” l’azione della magistratura; il “deficit strutturale” dell’ordinamento italiano nella tutela dei diritti fondamentali e nella prevenzione degli abusi di potere.
Non sorprende, alla fine, che le principali ricostruzioni d’insieme delle giornate di Genova e dei successivi sviluppi si debbano ad alcuni outsider dell’informazione, come Carlo Gubitosa, mediattivista di talento, autore del libro inchiesta “Genova nome nome”, pubblicato da Terre di mezzo nel 2003, o come il sottoscritto e Vittorio Agnoletto, uno giornalista l’altro medico ma entrambi attivisti coinvolti nelle vicende narrate nel libro “L’eclisse della democrazia” (appena uscito da Feltrinelli in nuova e aggiornata edizione), vicende raccontate con rigore documentale ma non con distacco.
Aspettiamo con curiosità nuovi e migliori contributi, intanto si potrebbe riprendere e sviluppare una seria riflessione sui rapporti fra il potere – e in particolare le polizie – e il nostro sistema dell’informazione.