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La Consulta limita (ma non esclude) il carcere per i giornalisti e segnala (ma non dirime) le lacune della normativa vigente

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Il 12 luglio scorso sono state pubblicate le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale 22 giugno 2021, n. 150 con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 13 della legge n. 47/1948 (che perseguiva con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 258 euro il reato di diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato) e dell’art. 30, comma 4, della legge n. 223/1990 che prevedeva la medesima sanzione in caso di diffamazione commessa nell’ambito di trasmissioni radiofoniche e televisive.

Non si può fare a meno di rilevare come le attese di quei giuristi e dei giornalisti impegnati, da decenni, sul fronte comune della tutela del diritto-dovere alla libera informazione siano state in buona parte deluse, a fronte di una pronuncia che limita senz’altro la possibilità di sanzionare con la pena carceraria i professionisti della “carta stampata” e delle radio-tv ma che, nel contempo, non esclude affatto una simile eventualità.

Vero è che la natura propria del giudizio affidato alla Consulta non consentiva, in concreto, un intervento più incisivo e radicale. In altre occasioni però la giurisprudenza costituzionale ha saputo (e voluto) fornire, nel rispetto delle prerogative del Parlamento, indicazioni ben più pregnanti al fine di orientare le riforme di cui si evidenzia l’inderogabile necessità.

Per la Corte costituzionale, la pena detentiva per il giornalista è incompatibile con l’art. 21 Cost. e con l’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo solo laddove venga paventata come “indefettibile”, vale a dire quale trattamento sanzionatorio obbligato a prescindere da ogni valutazione circa le circostanze in cui è maturata la diffamazione: come per l’appunto imponeva l’art. 13 della legge n. 47 del 1948 che prevedeva in ogni caso, come rammentato, la pena congiunta (reclusione e multa).

Nessuna censura di legittimità scalfisce, invece, l’art. 595, terzo comma, c.p. che diventa, così, norma esclusiva di riferimento in tema di responsabilità penale del giornalista per “diffamazione commessa col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, punibile con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa non inferiore a 516 euro. Questa duplice ed alternativa opzione sanzionatoria (reclusione o multa) è considerata dalla Corte ineccepibile sul piano costituzionale, in quanto idonea a prevenire «aggressioni illegittime (…) compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. – la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e gli altri siti internet, i social media, e così via -, [che] possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime».

La Corte costituzionale non ha eliminato il “carcere per i giornalisti” (come è stato detto da taluni in maniera semplificatoria e, quindi, impropria) ma ne ha circoscritto l’inflizione ai casi in cui «la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità». Il reale impatto “pro reo” della pronuncia potrà essere colto, pertanto, solo alla prova dell’applicazione giudiziaria del principio di diritto sancito dalla Consulta, in forza del quale il giudice penale dovrà optare per l’ipotesi della reclusione «soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata (…); mentre dovrà limitarsi all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi».

D’altro canto, la scelta fra le diverse sanzioni alternativamente previste dall’art. 595 c.p. (reclusione e multa) non è certo scontata se si considerano gli ampi spazi di discrezionalità che contrassegnano la valutazione che, di volta in volta, il giudice di merito sarà chiamato ad operare. Se i canoni ermeneutici fissati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo risultano oltremodo chiari e rigorosi, allorché delineano la massima rimproverabilità del reato di diffamazione se riconducibile ai «discorsi d’odio» ed all’«istigazione alla violenza»; lo stesso non può dirsi per i parametri suggeriti dalla nostra Corte costituzionale che appaiono a tratti tautologici e, come tali, suscettibili di ambiguità interpretative. Basti pensare che, stando agli esempi formulati dalla Consulta, la pena carceraria nei confronti del giornalista dovrebbe ritenersi comunque giustificata in caso di «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi». La sentenza n. 150/2021 sembra voler stigmatizzare, in questa accezione, certe pratiche del “giornalismo politico militante” che esulano dalla «funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”», finendo per costituire «un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione»; «con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali».

Al di fuori di questi «casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica», come ha premura di sottolineare la Corte, «la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica».

La pur pregevole disquisizione giuridica non basta ad affrancarci dal rischio, ancora persistente, di pesantissime distorsioni nell’applicazione della disciplina penale della diffamazione (art. 595 c.p.).

Il monito conclusivo con cui la Corte invita il legislatore ad «individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività», risuona come un esercizio di equilibrismo (più che di bilanciamento) fra valori costituzionali, con esiti che si prestano a facili speculazioni in ambito politico e che inficiano a priori ogni realistica possibilità di pervenire, in tempi rapidi, all’auspicata riforma legislativa.

La sentenza di incostituzionalità dell’art. 13 della legge n. 47/1948 ha prodotto un unico effetto tangibile, immediatamente riscontrabile sul piano squisitamente procedurale. E non è una novità che va a favore del giornalista-querelato per diffamazione.

Da adesso in poi, il malcapitato cronista non potrà più avvalersi del filtro dell’udienza preliminare che consentiva, nella disciplina previgente, una ponderata verifica, da parte del giudice-terzo, della contestazione di “diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato”. Ogni avvocato sa quanto e come il vaglio del GUP, al cospetto di talune discutibilissime ed avventate imputazioni del Pubblico Ministero, si sia dimostrato provvidenziale per evitare ai giornalisti-accusati l’onta ed i costi di un processo penale solitamente estenuante e sempre doloroso e, più in generale, un inutile sovraccarico degli apparati giudiziari.

L’udienza preliminare non è prevista per il reato di cui all’art. 595 c.p., per cui vengono inesorabilmente a ridursi, da questo punto di vista, le garanzie riconosciute al giornalista indiziato di “diffamazione specifica”.

Alla Corte costituzionale non è certo sfuggita l’entità del pericolo che rimane incombente per la nostra democrazia, stante l’immutata farraginosità del nostro sistema di “diritto penale dell’informazione”. Il giudice delle leggi può e deve arginare le antinomie che mettono a repentaglio la nostra Costituzione ma non ha modo di ovviare alla colpevole inerzia della politica.

La sentenza n. 150/2021 prova a scuotere la coscienza di un legislatore a dir poco disattento, refrattario nel recepire le reiterate sollecitazioni della Corte: «la presente decisione, pur riaffermando l’esigenza che l’ordinamento si faccia carico della tutela effettiva della reputazione in quanto diritto fondamentale della persona, non implica che il legislatore debba ritenersi costituzionalmente vincolato a mantenere anche per il futuro una sanzione detentiva per i casi più gravi di diffamazione».

Ci vorrebbe un “buon intenditor” che sia in grado di ascoltare e che sappia dar seguito a queste “poche parole”.


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