Jim Morrison se ne andò cinquant’anni fa, a soli ventisette anni, come Jimi Hendrix, come Janis Joplin, come, dieci anni fa, la splendida e disperata Amy Winehouse, quasi che quell’età rappresentasse le colonne d’Ercole per delle vite spinte all’estremo, oltre ogni limite, talmente esagerate, assurde, ricche di talento, meraviglia e follia da essere fugaci. Brevi, troppo brevi, come se avesse ragione il poeta Menandro quando affermava che “muore giovane chi è caro al Cielo”. Eppure, in quei ventisette anni senza requie, segnati dall’alcol, dal consumo di cocaina e da una dissoluzione schizofrenica che, tuttavia, consentiva a questo studente dell’Università della California di raggiungere vette sublimi, abbiamo assistito a un’esplosione di magia che ci ha regalato l’epopea dei Doors e capolavori immortali come “Light my fire” o “The end”, colonna sonora di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola ed emblema della generazione che manifestava contro lo scempio del Vietnam. Del resto, questo è stata quella generazione: la contestazione, la rabbia, la comunità, la protesta, l’utopia, l’estate dell’amore a San Francisco, Woodstock, l’uso sfrenato di LSD e altri allucinogeni, il desiderio di creare un mondo parallelo, un altrove, un rifugio dalla barbarie, la battaglia senza sosta contro una politica già allora sorda e insensibile e, infine, la resa.
Il Sessantotto e gli anni che hanno ruotato intorno a quell’epifania della gioventù che ha creduto in qualcosa è stato sconfitto dal dilagare del liberismo, dalla perdita di ogni speranza, dalla fine dei sogni, forse del concetto stesso di sogno, dall’abbaglio liberista, che altro non è stato che un’opera di sistematica distruzione non solo del pensiero keynesiano ma anche del nostro vivere civile, e dal progressivo scivolamento verso una tecnocrazia che ha reso i giovani apatici per almeno due decenni. Poi è arrivata la crisi e qualcosa è cambiato, ma non abbiamo più la gioia, l’allegria, il desiderio di creare, la furia che accendeva i ragazzi di Woodatock, e l’amore stesso ormai si è attenuato, si è trasformato per lo più in sesso, ha smarrito la sua portata emancipatrice e rivoluzionaria.
Jim Morrison è stato uno dei grandi cantori di quella stagione irripetibile, in cui eravamo un po’ tutti Figli dei fiori e c’erano le ideologie, ci si interessava ai problemi degli altri e non avevano ancora trionfato l’egoismo e l’individualismo disumano.
Nella constatazione della sua grandezza, ovvia a pensarci bene, è racchiuso il nostro rimpianto, la nostra amara nostalgia, la nostra sensazione che di quei giorni non sia rimasto nulla e il nostro desiderio di riviverli, almeno idealmente. E vale per chi c’era ma, soprattutto, per chi ha ascoltato i racconti dei padri e dei nonni e vorrebbe vivere un momento di spensieratezza, vorrebbe essere, almeno una volta, veramente felice, vorrebbe ribellarsi allo stato delle cose ma non sa neanche da che parte cominciare, per il semplice motivo che per anni e anni siamo stati imbottiti di balle e convinti che la direzione da seguire fosse una sola, senza alcuna possibilità di deviare dalla traiettoria imposta dall’alto.
Jim Morrison era un visionario in lotta contro tutte le dittature, una luce accecante, un momento d’immensità che si è spento troppo presto. Del resto, in un mondo come questo non avrebbe saputo cosa dire e oggi non potrebbe esistere. Non siamo più in grado, infatti, di accogliere l’idea che un altro mondo sia possibile.
P.S. Un pensiero affettuoso alla famiglia di Paolo Beldì, scomparso all’improvviso a soli sessantasei anni dopo essere stato uno dei simboli della RAI migliore. E un pensiero anche a Lady Diana, che avrebbe compiuto sessant’anni, e agli amici e colleghi dell’Osservatore Romano, che da centosessant’anni ci raccontano il mondo con garbo, finezza e rara apertura mentale, per non parlare poi del loro sguardo costantemente rivolto alla complessità del mondo. Addii e anniversari che inducono a riflettere.
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