Una scena stupenda. Me la immagino, la rivedo di continuo nella fantasia: la bambina di undici o dodici anni che, anni fa, nel secondo o terzo corso di pianoforte al Conservatorio, affrontò alcuni dei Piccoli Pezzi per pianoforte di Schönberg, e li eseguì in maniera commovente: una piccina che si siede alla tastiera e, con toccante serietà, mescola semplici brani di Diabelli alla dodecafonia… sublime.
Lo ricorda Riccardo Malipiero – nipote di cotanto zio – in una lunga chiacchierata con Gillo Dorfles uscita da Scheiwiller nel 1984, Il filo dei dodici suoni. L’autore ricostruisce l’episodio e rammenta anche di aver chiesto alla bambina se quella musica le piaceva: «Moltissimo», fu la risposta.
Sembra un’ottima lezione data a tutti coloro che, per giungere alla dodecafonia, hanno bisogno di quintali di stimoli musicali precedenti, di ascoltare per anni e anni quantità di cosiddetta “musica classica”, prima di svezzarsi alla grande fenditura storica della serialità a dodici suoni; una lezione insomma all’enorme massa critica convinta che alla dodecafonia, appunto, «è necessario arrivarci progressivamente e criticamente». Non è vero: a quella bambina Schönberg piaceva, anche senza aver avuto il tempo di farsi una “cultura” dell’ascolto.
Stessa cosa accade con la pittura moderna e con la nostra incapacità didattica di farla amare: sarebbe sufficiente tappezzare le scuole elementari di Kandinskij, Duchamp, Dalì…