A venti anni esatti dalla sua uscita Intimacy non ha perso nulla della sua forza emotiva. Da rivedere assolutamente.
Ritrovarsi e scambiare anche poche parole con gli amici sui film visti, amati o odiati che siano, permette non solo di esercitare intellettualmente la propria mente ma anche di parlare di se e degli altri. Un film come quello di Chéreau rappresenta uno snodo di quella vasta rete di interessi culturali che ognuno di noi tende a costruirsi intorno per poter capire e amare questa nostra vita, questo nostro mondo. Film, romanzi, poesie, dipinti, insomma qualsiasi cosa legata all’arte, sono il condimento delle nostre grigie esistenze. Ci commuovono, ci rendono felici, ci fanno pensare, arrabbiare, ci permettono di discutere e discutersi, insomma ci mostrano chi siamo, cosa vogliamo, dove sbagliamo, anche quando sembrano semplici, divertenti e poveri film o romanzi.
L’impatto visivo e concettuale di Intimacy smuove certezze acquisite in lunghi anni di tirocinio sentimentale. Anzi ripropone, credo, la fragilità dell’equilibrio emotivo del maschio, ponendolo di fronte alla sua superbia e alla sua presunta indipendenza. A Londra un uomo e una donna si incontrano un giorno alla settimana per fare sesso, non si conoscono, non parlano. Fanno l’amore rapidamente e intensamente in un locale squallido coi loro corpi antiestetici e così normali. Lui fa il capo-barman, è separato dalla moglie e ha due figli piccoli che segue con affetto. Un giorno accade quello che non doveva accadere: lui decide di seguirla, ma la prima volta la perde nella folla. La settimana successiva insiste e arriva in un locale dove c’è un teatrino sotterraneo. Lei è lì che recita. Lui si mette a parlare con un tipo che risulta essere il marito. Lui torna in quel locale varie volte finché una sera il marito gliela presenta nel camerino del teatro. Rimasti soli i due amanti cominciano a rinfacciarsi il modo di gestire la loro situazione. La donna, madre di un bambino, si scontra anche con il marito, che fa il tassista. Un pomeriggio, la donna suona a casa di lui, entra e l’uomo le dice tutto di sé e del fatto che è innamorato di lei. La prega di restare, ma lei rifiuta.
Si abbandonano ad un ultimo rapporto, poi lei se ne va perdendosi nella confusione della città. Sintetizzata così la storia appare forse troppo banale, in realtà è un film duro e diverso, che pur partendo da una situazione da Ultimo tango a Parigi, con un protagonista ossessionato dalla sua virilità, si diversifica dal film di Bertolucci per gli esiti, ma soprattutto per la mancanza di estetismi fisici e ambientali, cosa che rende più vera la vicenda dei due amanti, interpretati intensamente da Kerry Fox e Mark Rylance e con Timothy Spall nel fondamentale ruolo del marito. “Nell’intimità” trasmette un forte disagio perché legge perfettamente e in modo sconcertante la vita reale mettendo a nudo le emotività (soprattutto maschili) nascoste dietro la rappresentazione fredda e, se si vuole, cruda dell’atto sessuale. Patrice Chéreau è bravissimo nel tradurre in immagini emozionanti – grazie all’algida fotografia di Eric Gautier – le scene d’amore carnale, che appaiono di rara tensione ed efficacia. Colori opalescenti e sgranati accompagnano i corpi nudi, mai patinati, ma imperfetti e cadenti, affannati e affamati dei protagonisti, di cui sembra sentirsi l’odore, ma anche la passione del cuore. Il grande scrittore anglo-indiano Hanif Kureishi ha fornito il soggetto da un suo libro e il film vinse, giustamente, l’Orso d’Oro al festival di Berlino, assegnando anche l’Orso d’Argento alla protagonista.