Rimuovere la memoria del G8 di Genova è un reato molto simile ai delitti compiuti in piazza nel 2001. Perché in quei tre giorni di luglio l’Italia precipitò nell’abisso: ancor più che per reazione a uno straordinario movimento civile, l’abisso si squarciò per il grave fallimento degli apparati pubblici e per la completa irresponsabilità che dimostrarono la politica, il governo e i partiti. Anche i media fecero la loro cattiva parte, incastrandosi su una malintesa imparzialità, capace di annacquare le grandi inchieste e le durissime cronache dei loro stessi giornalisti.
Il ventennale del G8 può aiutare tutti a uscire dal reducismo e a riannodare le responsabilità di quello scempio. Per farlo, bisogna innalzarsi sopra la scena. Anche dicendo che il Genoa social forum non ebbe la forza di uscire dalla persecuzione, lasciando che la legittima lotta alle aberrazioni della globalizzazione, nata su radici progressiste, abdicasse alla sanguinaria guerra al mondialismo, cresciuta su istanze sovraniste e razziste. Anche sollevando i singoli poliziotti e i singoli carabinieri dalla gogna, pretendendo invece una, seppur tardiva, censura degli uomini che al tempo comandavano le forze dell’ordine.
Certo, come ho cercato di argomentare nel mio libro “Genova, vent’anni dopo” (People editore), quello delle forze dell’ordine è il fallimento più plateale, alla luce del sole. Infarciti da veline del tutto sballate da parte di un’intelligence incapace di segnalare i pericoli reali, polizia e carabinieri si sono trovati preda di una cabina di comando, interamente nominata dai governi di centrosinistra, ansiosa di farsi confermare dal nuovo governo dominato da Silvio Berlusconi. Erano tempi di “allarme microcriminalità”, incendiata dagli organi di informazioni della gigantesca grancassa del premier: essere confermati comportava l’ostentazione di un miracoloso pugno di ferro. Quale miglior occasione di svelarlo contro quella piazza che la maggioranza di centrodestra riduceva unicamente a un mazzo di “zecche comuniste”? Nessuno, d’altra parte, riuscì a spiegare che nel Genoa social forum convivevano invece cattolici, ambientalisti, pacifisti, contadini, insegnanti, scout, lavoratori, metalmeccanici, intellettuali e laici.
Gianni De Gennaro, capo del sistema di sicurezza, ben spalleggiato dal volto securitario della nuova maggioranza, ossia Gianfranco Fini, impose a ventimila uomini una postura saldamente militare, contravvenendo allo spirito della legge del 1981, scambiando i contestatori per un esercito nemico. Soprattutto convincendo poliziotti e carabinieri: stavano per essere assaliti da estremisti. Ci furono due problemi. Primo, i Black bloc – qualche centinaio di ragazzi a volto coperto – trovarono sempre strada libera e non furono mai frenati, intercettati o arrestati. Secondo, le forze dell’ordine si scagliarono contro i manifestanti pacifici (fino a 300 mila nella marcia del sabato), infierendo su feriti e anziani. E spesso sbagliarono completamente tattica. Come in via Tolemaide, quando i carabinieri prima attaccarono senza motivo i Disobbedienti, poi ebbero la peggio, cercarono di travolgerli con i blindati in corsa e alla fine si ritirarono nella sacca di piazza Alimonda, dove si consumò la tragedia.
I vertici del sistema di sicurezza si accorsero che le cose non andavano per il verso giusto e decisero di inscenare una retata di massa per mostrarsi efficaci. Scelsero la Diaz e sprofondarono lo Stato nel buio, innalzando le grate della zona rossa, che già aveva diviso una città da sempre senza confini, a un monumento alla macelleria sociale. Coprirono l’assalto con un mare di menzogne (basti pensare alle due molotov, sequestrate a 5 km di distanza e fatte trovare nella palestra), ben declamate in tv anche da ministri, trombettieri e peones. Persa la testa e la decenza, precipitarono infine nella tortura di Bolzaneto.
Tutto era piuttosto chiaro già in quei giorni. E lo divenne definitivamente con i difficili processi, grazie più a pm e avvocati coraggiosi che a una magistratura molle e timorosa. Ma l’Italia sembrò non accorgersene. Il centrodestra non si occupò mai di ripensare a quei giorni; il centrosinistra (che si sentiva coinvolto avendo nominato i vertici di polizia) temeva di perdere quel consenso moderato che stava cedendo alla narrazione televisiva berlusconiana: o con i centri sociali o con lo Stato. Quindi abbandonò un intero popolo.
In qualsiasi altro Stato si sarebbe aperto un processo politico, culturale e (anche) penale. L’Italia gettò la palla in tribuna, spesso stampa compresa, rifugiandosi nella rassicurante pratica dell’irresponsabilità.