Lo scorso mercoledì la federazione nazionale della stampa ha tenuto una drammatica conferenza stampa, a Roma, davanti al ministero del lavoro.
Innanzitutto, è stato lanciato l’allarme sul futuro dell’istituto di previdenza dei giornalisti (INPGI), caricato di un indebitamento indotto dall’abnorme aumento di prepensionamenti e casse integrazioni. E quest’ultimo è l’effetto di un comodo e strumentale rifugio per editori incapaci di programmare adeguatamente i salti tecnologici. Le testate che hanno immaginato per tempo il che fare – da Le Monde, a Washington Post, a New York Times– ora versano in ben diverse condizioni. La transizione digitale, acclamata nei convegni, richiede sapienza e visione. Altrimenti si risolve nell’eutanasia del settore.
Le organizzazioni sindacali rivendicano, giustamente, scelte non distruttive e rispettosedell’autonomia della professione, basate anche sull’indipendenza dell’istituto pensionisticointitolato a Giovanni Amendola.
Che aspetta il governo ad aprire un confronto reale, mettendo in piedi un tavolo di dialogo fattivo? O la federazione della stampa – con il presidente Giuseppe Giulietti e il segretario Raffaele Lorusso– deve replicare ex post la metafora di Giulietta e Romeo, chiedendo al ministro Orlando di affacciarsi alla finestra?
I capitoli aperti sono numerosi, e ora rischiano di coprirsi di muffa, abbandonati come sono in qualche sottoscala. Si tratta del tema delle querele temerarie e dell’abolizione del carcere tanto più dopo la sentenza della Corte costituzionale, della mancata riforma della Rai mentre incombono le nomine dei nuovi vertici, del superamento dell’odioso ricorso ai contratti co.co.co, al superamento delle logiche perverse dei tagli del fondo per il pluralismo, all’introduzione dell’equo compenso. Come fu previsto da una piccola legge del 2012, apparentemente semplice e di immediata efficacia, tuttora bloccata.
Per non dire delle risorse inserite genericamente nell’ambito della transizione digitale nel vasto volume del piano per il rilancio e la resilienza (PNRR), che richiederebbero una specifica declinazione volta a garantire il passaggio all’età dell’on line, senza lasciare sul campo morti e feriti.
Insomma, va lanciato un allarme rosso sullo stato effettivo dell’articolo 21 della Costituzione, visto che non passa giorno senza che qualche cronista sia insultato o minacciato, fino al tiro al piccione contro la trasmissione di inchiesta Report.
Neppure sente il governo l’urgenza morale di intervenire sulla persecuzione in atto del fondatore e giornalista di WikiLeaks Julian Assange, colpevole di avere svelato le verità sui misfatti delle guerre e degli stati più potenti.
Siamo alla commedia (tragedia) dell’assurdo: i buoni diventano cattivi e viceversa. Le promesse e le scadenze vengono cinicamente dimenticate.
La compagine presieduta da Mario Draghi rischia, se non vi saranno novità già nei prossimi giorni, di passare alla storia come quella che ha buttato l’Italia nelle parti basse delle classifiche annuali sul rispetto del diritto all’informazione, nella casella occupata da Polonia e Ungheria.
Sottosegretario Moles, se ci sei, batti un colpo. Il tempo corre inesorabile.
La lotta, ovviamente, continua e si intreccia con il generale movimento di lavoratrici e lavoratori contro il ricorso al precariato, alla disoccupazione, al rinnovato schiavismo.
Il lavoro nell’informazione non è un luogo ricco e privilegiato. Se mai è una delle vittime del capitalismo delle piattaforme e della miopia di gruppi dirigenti incapaci di gestire l’età digitale.