La cruda drammaturgia dello scomodo autore statunitense, si sa, non lascia spazio alla fantasia. Scava nel dolore degli uomini con semplicità e chiarezza, suscitando polemiche e critiche a vari livelli. La sua sceneggiatura risente del linguaggio impoverito del nostro tempo e fa discutere sulla sua valenza. LaBute infatti costruisce dialoghi elementari, dove il quotidiano svirgola nel frastuono dei condizionamenti della mente, nel silenzio dei sentimenti.
Scritto nel 2004 e dedicato a Davide Mamet, Fat Pig risulta più che mai attuale. LaBute qui sfodera gli artigli della verità, distrugge false frontiere, smaschera la codardia nella favolistica accoglienza del “diverso”, scruta nell’animo mediocre degli uomini, scompone il sogno d’amore che scivola inesorabilmente nei liquami della maldicenza, della crudeltà, della superficialità di un sistema sociale inerpicato sugli effimeri sentieri della bellezza. Su questo tema il regista aveva già scritto “La forma delle cose” nel 2001 e “Reasons to Be Pretty” nel 2008, realizzando la “Trilogia della bellezza”, come lui stesso la definisce, tesa a denunciare e scoperchiare le mefitiche concrezioni dell’“Apparire”. Obbligatorio essere carini, gradevoli, socialmente accettabili. Un gioco al massacro per chi non si allinea. Originariamente ambientato in America, dove l’obesità, alias diversità, è ampiamente diffusa, può flettersi ad ogni latitudine.
Con “La Pacchiona”, in palermitano la Grassona, adattato e diretto da Marcello Cotugno, si chiude così la rassegna estiva “Evasioni” prodotta dal Teatro Stabile di Catania. Il regista ci propone Fat Pig ambientato in Sicilia, dove non sempre l’accoglienza della diversità è praticata e dove persiste “una fortissima cultura del cibo, spesso visto come un collante sociale”; un meridione appena accennato in qualche inflessione dialettale e in sporadici riferimenti ai luoghi e cibi caratterizzanti, come il celebre “cannolo”. Al centro dell’asciutta vicenda ruota la storia d’amore, contrastata dai giudizi del contesto sociale, tra Tommaso, un prestante milanese trapiantato in Sicilia, ed Elena, una simpatica, gentile e talentuosa bibliotecaria siciliana decisamente “taglia molto forte”. Si incontrano per caso alla pausa pranzo in un anonimo fast food. Lei, infischiandosene delle conseguenze, si ingozza, godendosi le prelibatezze ipercaloriche dei piatti locali; lui, attraente, attento alla linea, banchetta (si fa per dire) con un piatto di quinoa di ultima generazione. Lei adora i western, brulicanti di uomini coraggiosi e sicuri di sé; lui, insicuro e altalenante se ne stupisce. Lei è sincera, schietta; ironizza sul suo handicap. Lui cincischia, barcamenandosi maldestramente con i suoi colleghi ai quali cerca di nascondere la relazione. Una coppia squilibrata, certamente. Tra i due però, nonostante tutto, magicamente nasce l’amore. Un sogno per Elena, che non aspirava a tanto. Ma…La relazione si complica quando la pingue fanciulla si rende conto che Tommi, pur dicendo di amarla, evita di frequentare in coppia le occasioni sociali, che per lui si riveleranno un ostacolo insormontabile. L’aspetto fisico di Elena si scontra con la dittatura della bellezza del nostro tempo. Un campanello d’allarme le scatta dentro, aprendo uno squarcio nella fiaba che sta vivendo. Il condizionamento degli altri cala come una mannaia sul debole capo di Tommaso, in un prevedibile epilogo.
La regia di Marcello Cotugno, secondo le sue dichiarazioni, ha privilegiatolo stile del teatro da camera, evocativo dell’Intima Teatern di Strindberg, puntando sui dialoghi, sottolineati dai simbolismi degli elementi scenograficidi Luigi Ferrigno e Sara Palmieri: essenziali, metamorfiche sfere, a sottolineare e sostenere l’azione. Il bianco globo centrale, onnipresente in tutte le scene, evoca a tratti “Il dittatore” di Charlie Chaplin, o la mitica luna di Meliès, quando non diventa schermo di video proiezioni.
La pièce, interpretata con garbo dai “buoni”: Paolo Mazzarelli, un convincente Tommy, e da Federica Carruba Toscano, la tenera Elena, sepolta da chili di gommapiuma, affiancati dai briosi “cattivi” di Chiara Gambino e Alessandro Lui, scorre gradevolmente coinvolgendolo spettatore fino all’aspra e prevedibile conclusione.
Passando per lo scardinamento dei nostri comportamenti LaBute vorrebbe sollecitare un’amara riflessione sulla difficile vita del “non socialmente omologato”, del “diverso”, e soprattutto sul nostro discutibile comportamento di fronte all’anomalia,
un tema che fa certamente prendere forza al progetto catartico. Tutti perdenti e diversamente infelici, i protagonisti e gli spettatori mangiano la stessa polvere del dramma insoluto. All’apparenza una storia d’amore dunque; in realtà una storia di mancanza d’amore e soprattutto di rispetto per l’Altro da noi. Una storia di superficialità che spinge a rivelare a noi stessi i nostri compromessi, a considerare quello che spesso siamo veramente: bandiere al vento.
LA PACCHIONA
Una versione siciliana di Fat Pig di Neil LaBute
Traduzione e adattamento di Marcello Cotugno e Gianluca Ficca
Regia Marcello Cotugno
Con Paolo Mazzarelli, Federica Carruba Toscano, Chiara Gambino, Alessandro Lui
Scene e costumi Luigi Ferrigno e Sara Palmieri
Luci Gaetano La Mela
Audio Luigi Leone
Colonna sonora a cura di Marcello Cotugno