La parola vuoto compare già nel prologo, che è prologo soprattutto all’epilogo. Ma a cosa associamo generalmente il vuoto? “Al silenzio, alla paura, alla pace e alla tranquillità, alla morte, agli abissi, agli orridi, al cielo, alla mancanza, alle perdite, ai lutti, al riposo, alle pause, alle vacanze, alla solitudine benefica o malefica, al tempo sospeso tra due attività, agli spazi senza costruzioni … e, nella maggior parte dei casi, il vissuto che ne deriva non è positivo, contiene il rischio, il pericolo di perdersi.” (N. Tarantini, Il silenzio della mente, in Leggendaria n.146). Nel prologo la protagonista collega il vuoto alla pace, ma questa forse è solo una tregua. Poi il libro continua con le descrizioni del vuoto nelle sue diverse forme, quella del dolore, della mancanza, della paura, dell’horror vacui, degli spasmodici tentativi che si compiono, quando ci si sente in preda al vuoto, di riempire quella tensione tra vuoto e pieno che non è vuoto assoluto. “Lettere dall’orlo del mondo” è un epistolario di novanta pagine in cui si addensano i pensieri e i sentimenti di J., che da un certo punto verrà chiamata col suo vero nome, Miranda e Y., che nella vita si chiama Edoardo. Si scrivono da luoghi indicati con una sigla che resta invariata anche quando i luoghi cambiano. Lei è una donna in fuga, non sappiamo da cosa: dal male di vivere, da un amore irrisolto, da un evento tragico, da un lutto, da una colpa. Scorriamo le pagine del libro che pur con l’andamento di un giallo ha una scrittura poetica e ci tiene in sospeso pronti a cogliere gli indizi sulla storia dei due protagonisti. Sono lettere che ognuno dei due scrive all’altro, ma anche per se stesso ignorando se l’altro le potrà leggere un giorno.
J. è partita un’altra volta, cerca la lontananza, ma scrive di portare con sé una consapevolezza, la fiducia che si potranno ritrovare. Trova rifugio in una pensione che “non è un gran che, ma è pulita” come la sua vita, anche se lontano da lui sente di non essere riuscita a ritrovare il senso delle cose; le risuonano le parole di lui “ senza senso la vita è una giostra vuota che gira fino a rallentare la sua corsa, e fermarsi” e ricorda il suo consiglio di imparare a respirare. Nella sua fuga sente gli echi dell’oggi, di altre fughe, le grandi migrazioni di un’umanità alla deriva, ma avverte anche le “schegge di venti” che si intrufolano nei pensieri stanchi e portano tregua al suo fuggire continuo. Nella piccola stanza essenziale della pensione consuma la sua solitudine, avendo scelto di tirarsi fuori dal gorgo del tempo frenetico dei nostri giorni e di spostare il baricentro da sé al mondo mettendosi semplicemente in ascolto. Trascorre lunghe notti aspettando il sonno, che non è la vera cosa che ha perso la gente della notte. Trova però sempre le parole per scrivere a lui e anche per scrivere una ballata per altri transfughi della vita, gente che ha finito per vivere sotto i ponti “gente buttata ai margini perché di poca utilità”. In questa sua solitudine bastano pochi contatti a darle il senso di essere nel mondo, quelli essenziali con la gente del piccolo paese in cui è approdata; con F. il padrone della locanda in cui alloggia, un altro solitario con il suo Cane; la proprietaria di una bottega che le racconta la sua storia d’amore e di abbandono; la donna albanese che incontra sul pullman quando ricomincia il suo viaggio e che è fuggita con la figlia dal marito violento.
Questi e altri, un’umanità provata dalla vita, ma di cui impara che lo sguardo smarrito a volte non è arreso, ma “solo in attesa di scorgere di nuovo una strada”. Vive l’assalto dei ricordi, l’assedio della costruzione del dolore “che noi ci dedichiamo”, convinti che il nostro sia un dolore unico e irripetibile. Vive il pendolo tra lo sprofondare nella disperazione più nera e l’insperato sollievo dell’aria, dei colori, di un orizzonte inaspettato e dell’affidarsi al disegno in cui immergersi nelle infinite tracce delle matite. Di nuovo in fuga cerca l’anonimato nella grande città e l’abbraccio con il mare, affidandosi talora all’immanenza del momento senza rinunciare a cercare pillole di saggezza nelle parole di Bradbury, di Céline e di altri scrittori. Guarda in faccia al suo dolore, ricorda il percorso già fatto insieme a Y. di ricostruzione, di analisi dei passaggi critici della sua vita, ma tutto ciò non è bastato a non far prevalere la sua rabbia, la disperata ricerca di una sua libertà, di un suo centro, di una sua autenticità nella fuga. Cita allora l’ultima lettera di Virginia Woolf al marito per giustificare con Edoardo le sue fughe come il tentativo di salvare il loro rapporto dalla sua estrema tristezza. Edoardo è logorato dalle lacrime e dalle continue ripartenze di lei, non ce la fa più a vederla periodicamente andarsene, ma cerca di farsene una ragione, di trovare una tregua all’abbandono sistemandosi in una casa isolata in riva al mare. Lacerato tra il senso di assenza e di perdita, afferma di poterla aspettare tutta la vita e descrive la sua situazione citando Michelangelo quando scriveva “L’attesa è il futuro che si presenta a mani vuote”.
E’ comprensivo della disperata ricerca di lei di “un’armonia perfetta che possa darti pace”, ma è anche consapevole che deve essere lei stessa a trovarla. Addolorato dalla mancanza anche a lui non vengono mai meno le parole e la voglia di scrivere e ricerca conforto nel riprendere a fotografare nel rigore e nella nettezza del bianco e nero. I suoi sonni sono agitati da un sogno ricorrente che lo spaventa e lo tiene ancora una volta appeso a un’attesa. Passione e attesa sono la cifra della sua vita, che accetta senza rimpianti, con la pazienza che ha appreso dal padre. A volte è sopraffatto dalla nostalgia di lei, tuttavia comprende che Miranda, come lui preferisce chiamarla, se n’è andata per spegnere la sua rabbia divorante, non per porre una distanza. Rabbia le cui circostanze vengono solo adombrate e intanto lui continua ad aspettare nel rispetto di quello “spazio definito” che deve restare “inviolato e inviolabile” e dentro il quale ha capito che ognuno sta: “Dentro quello spazio nessuno può e deve entrare perché è lì che siamo davvero liberi. E non importa dove ci si trova. L’importante è saperlo difendere. Più ancora è sapere di possederlo e di averne pieno diritto”. Perciò aspetta perché ha capito che non può aiutarla e deve essere lei ad arrivare a disegnare un loro orizzonte, di gioia e di dolore, ma che sia un loro orizzonte. Perciò Edoardo continua ad aspettare, come e fino a quando solo l’inaspettato epilogo lo rivelerà.
Barbara Garlaschelli, nata a Milano nel 1965, vive e lavora a Piacenza. E’ autrice di libri di racconti, di numerosi romanzi di genere diverso, di uno sceneggiato radiofonico, di un blog. E’ tradotta in Francia, Spagna, Portogallo, Olanda, Serbia, Messico. “ Lettere dall’orlo del mondo” è stato pubblicato per la prima volta nel 2012. Viene ora riproposto in una nuova veste avendo deciso, come scrive l’autrice, di “restituirlo al mondo un po’ cambiato. E intendo tutto: il mondo, il libro e i suoi protagonisti”.
Barbara Garlaschelli, Lettere dall’orlo del mondo, Arcadia editore, 2021.