Gabriella Bellini è il Direttore delle Attività Socio-Sanitarie della Residenza di 3° livello per non autosufficienti “Casa Emmaus” e dei Centri Diurni “A Casa Mia” di Trieste gestiti direttamente dall’ente privato senza fini di lucro Comunità Educante Soc. Coop. Sociale – Onlus. In queste realtà, grazie alla passione del suo direttore e per merito di equipes di professionisti formati e fidelizzati è stato possibile affrontare e superare l’emergenza causata dall’insorgenza del Covid-19 e tornare a “nuova vita”. La dottoressa Bellini è un medico geriatra con una visione multi-sistemica in grado di garantire una qualità di vita senza per questo dover rinunciare ai protocolli sanitari di prevenzione per contenere la diffusione del virus. Specialista in geriatria, con un master in medicina palliativa e uno in psicogeriatria, la dottoressa Bellini è stata dirigente medico di I livello presso l’Unità Operativa di Medicina Riabilitativa e Lungodegenza Ospedale Provinciale Lungodegenti “San Giovanni di Dio” Fatebenefratelli di Gorizia e, successivamente, Coordinatore Sanitario della Residenza Protetta per anziani non autosufficienti “ Villa San Giusto” dei Fatebenefratelli a Gorizia.
«Negli ultimi 20 anni l’interesse prevalente, su cui si è concentrato il mio impegno professionale è stato quello delle demenze e della fragilità nel senso più ampio del termine. Mi sono focalizzata sulla “costruzione” di un modello di cura che attraverso la ricerca di soluzioni innovative organizzativo-gestionali (prevalentemente di tipo non farmacologico) preservasse la dignità delle persone e offrisse risposte “concrete” a questo target di utenza e alle loro famiglie». Queste le motivazioni della dottoressa Bellini che dimostrano quanto sia indispensabile avere una coscienza etica rivolta al benessere delle persone assistite in situazioni di svantaggio.
Il 28 gennaio di quest’anno è stato organizzato su Zoom il Convegno “Anziani, la morte al tempo del Covid-19. Vulnerabilità e fragilità dell’anziano istituzionalizzato in tempo di pandemia”, ideato da Informazioni&Diritti GS-Salute, emanazione del sindacato dei dipendenti provinciale di Bolzano GS e dedicato alle tematiche della scuola, della formazione, del benessere e della salute. Promotore del Convegno, Luca Curti insieme a Giorgio Benacchio e Roberta Zago, docenti della Scuola Professionale per le professioni sociali Lévinas di Bolzano.
Tra i relatori figurava anche Gabriella Bellini, che ha portato la sua testimonianza-esperienza su come ha gestito i servizi residenziali e semiresidenziali durante le varie fasi della pandemia e, in particolare nei giorni terribili della prima emergenza. Una gestione che ha sempre cercato di armonizzare sicurezza epidemiologica e qualità di vita delle persone, a differenza di quanto accaduto in altre realtà dove si è optato per una totale chiusura e privazione dei fondamentali diritti della persona. Il gruppo Informazioni&Diritti GS-Salute, a seguito del Convegno ha redatto il «Manifesto del “Covid-19” per l’esigenza di riassumere e “manifestare” la condizione e le criticità dell’esistenza in epoca di pandemia. Un’assistenza che, seppur in prima fase fu colta di sorpresa, anche nella seconda ha identificato la persona con la malattia. Nel tentativo, per altro fallito, di isolare la malattia, di fatto ha isolato la persona. Ha tolto dignità alla sofferenza ed alla morte. Ha trasformato strutture sanitarie ed assistenziali in contesti che sempre più assomigliano ad istituzioni neo-manicomiali in cui la contenzione ambientale, meccanica e farmacologica diventa, impropriamente mezzo giustificato di cura. È necessario riconoscere gli errori e imparare da questi per cambiare».
Da qui si è sviluppato un rapporto con la dottoressa Bellini, grazie a sollecitazioni formative offerte agli studenti dei corsi per operatori socio sanitari della Scuola Levinas di Bolzano e Merano, su invito della professoressa Roberta Zago, in compresenza con la dirigente medico, dove ha potuto spiegare come «attraverso l’accoglienza, diurna o residenziale di persone prevalentemente anziane, autosufficienti e non, Casa Emmaus di Trieste, intende rispondere ai bisogni di tipo fisico e psicologico mediante l’offerta, in un ambiente accogliente ed armonioso, di un servizio il più possibile adeguato e personalizzato per quanto riguarda gli aspetti medico-infermieristici, assistenziali, riabilitativi e spirituali». A seguire ci ha rilasciato un’intervista per approfondire l’argomento e spiegare come ha superato le fasi più critiche affrontate durante la pandemia, in ragione di una continuità assistenziale e sanitaria, garantendo il più possibile le attività socio assistenziali, tra qui quella dell’animazione
Partiamo dal presente, in questi ultimi mesi di relativa tregua cosa accade nella Residenza Casa Emmaus che lei dirige? Le attività si possono svolgere regolarmente?
«Direi che lentamente stiamo riguadagnando la tanto sospirata “normalità” di cui tutti noi abbiamo bisogno. In questo periodo, ad esempio, abbiamo potuto riammettere in struttura gli studenti Oss in tirocinio nell’ottica di un rapporto con le scuole di formazione tradizionalmente consolidato. È importante la loro presenza perché nel percorso che effettuano non studiano solo sui libri ma entrano in contatto con la realtà del lavoro. Possono verificare come la gestione degli ospiti non vada sia solo vista soltanto da un punto di vista farmacologico, sanitario e assistenziale, ma anche sul piano dell’integrazione più in generale. La nostra Residenza è aperta agli Oss, agli studenti di psicologia, agli educatori professionali, agli infermieri che sono iscritti al master in Infermieristica di Comunità e di ambito geriatrico. A marzo dello scorso anno, la pandemia aveva interrotto all’improvviso tutti questi tirocini che si svolgevano sia nella struttura residenziale che nel centro diurno. Dopo un periodo di chiusura totale tutto sommato abbastanza breve, da luglio 2020 abbiamo cominciato gradualmente, con la dovuta prudenza, ma al tempo stesso con tanta voglia di ricominciare, a riaprirci al mondo esterno. Da quel periodo, grazie anche a un concreto supporto del nostro Distretto Sanitario (prima con le campagne di screening con i tamponi naso-faringei eseguiti sistematicamente a tappeto a tutti gli utenti e agli operatori, poi con la campagna vaccinale) è stato possibile riaprire gli accoglimenti residenziali e riattivare i centri diurni in presenza.
Ci tengo a precisare, comunque, che durante tutto il periodo di chiusura dei centri abbiamo attivato un centro diurno on line utilizzando una piattaforma che ha garantito attività multimediali da remoto tra alcune figure professionali del nostro servizio – l’educatore, il fisioterapista e l’animatore – e i nostri “vecchi” utenti e le loro famiglie. La cosa importante era tramettere loro la nostra vicinanza, il nostro “esserci” , far capire che non erano soli, che non li avevamo abbandonati. Era estremamente emozionante strappare loro un sorriso, vedere come usando questi mezzi tecnologici – sconosciuti ai più – potevano vedersi , salutarsi, potevano raccontare come trascorrevano quelle giornate così buie. Il bisogno di relazione era fortissimo, sia fra i “miei vecchi” ( come amo affettuosamente chiamarli), sia tra le loro famiglie, sia fra noi … tutti travolti da uno tsunami senza precedenti. Il ritorno verso la tanto agognata normalità era cominciato. Abbiamo potuto ricominciare ad avere un menu degno di questo nome, a servire il cibo con le stoviglie e non più nei piatti di carta, visto che il virus viene eliminato a 70 gradi, senza per questo abbassare i livelli di sicurezza. Abbiamo potuto riprendere la produzione delle nostre famose marmellate – le marmellate delle Cuoche Pasticcione – un progetto nato quasi per scherzo che ci ha portato a diventare una piccola impresa che ha l’unicità di essere portata avanti da persone con sindromi dementigene. Anche questo era normalità, era rinascita. Tuttavia senza mai abbassare la guardia.
Quello che è accaduto durante le primissime fasi della pandemia è difficile da accettare e da elaborare per un geriatra della vecchia guardia come me, che da sempre ha cercato, giorno dopo giorno, di “costruire” servizi che generassero benessere nelle persone anziane, dando un senso alla loro vita, lunga o breve che fosse.
La lezione appresa in quelle settimane è stata forte e inattesa: quanto grande è stato il prezzo pagato dai nostri vecchi, sopravvissuti al COVID ma non alle conseguenze degli obblighi di chiusura e di isolamento che giocoforza avevamo dovuto attuare per difenderci da quel nemico così subdolo e pericoloso, di cui non sapevamo nulla.
Queste restrizioni avevano sicuramente un loro razionale nella primissima fase della pandemia (né noi, né le istituzioni sapevano con “chi” avevamo a che fare), ma poi, grazie a un corretto utilizzo dei DPI e a un rispetto “responsabile” da parte di tutti i professionisti dei percorsi sporco-pulito studiati dai referenti COVID presenti in ogni organizzazione (quanto ha lavorato il nostro in tal senso!) , le stesse avevano perso il loro originario significato, rivelandosi foriere di guai, forse, peggiori del COVID stesso. Da aprile a giugno 2020 non abbiamo potuto garantire nessuna delle tante attività di animazione che la Casa da sempre aveva assicurato, né le attività di stimolazione psico-cognitiva, ma neppure le forme più basiche di socializzazione. Il prezzo pagato è stato davvero alto: depressione, apatia, repentini aggravamenti dei deficit cognitivi e funzionali – e in alcune persone le conseguenze di quel periodo si fanno ancora sentire».
Conseguenze che hanno inciso sulla salute psicofisica delle persone. Si parlava solo di Covid, di letalità e mortalità mentre sono stati ignorate o rimosse le altre patologie e cosa comportavano sulla salute degli anziani.
«Purtroppo anche una realtà come la nostra, nata e pensata per promuovere la socializzazione in tutte le sue forme, per più di due mesi si è trasformata in un ospedale con tanti nuclei COVID in cui gli unici principi a cui ci si doveva attenere erano quelli propri di un reparto ospedaliero per malattie infettive, assolutamente antitetici ai valori che da sempre avevano caratterizzato il nostro modo di operare. Valori che vanno ben oltre a quelli legati esclusivamente ai bisogni sanitari, comprendendo anche aspetti sociali, psicologici, spirituali, pressoché annullati in quelle settimane. Le depressioni post COVID, i repentini aggravamenti dei quadri di deterioramento cognitivo, le perdite funzionali in primis motorie a cui i nostri anziani sono andati incontro sono solo alcune delle conseguenze che quel periodo di “prigionia” (certamente non voluta né auspicata da alcuno, ma di fatto posta in essere attraverso disposizioni e circolari) hanno portato con sé.
Le poche energie rimaste alle strutture erano assorbite da report giornalieri (dei veri “bollettini di guerra”) che riportavano il numero dei nuovi positivi, di quanti erano i negativizzati, di quanti erano in ossigenoterapia e, ahimè, di quanti erano stati i decessi in quella giornata. All’epoca non c’era “tempo” e non c’era “testa” per intuire quale impatto avrebbe avuto sui sopravvissuti anche un solo giorno in più di “chiusura” e di “isolamento sociale”. Le priorità erano altre».
Una situazione drammatica quella che descrive della quale si dovrebbe riflettere e cercare di evitare in futuro.
«L’obiettivo, superato lo shock delle prime ore, è stato fin da subito quello di conoscere il virus e i suoi effetti e, di conseguenza, “riorganizzarci” per fronteggiarlo al meglio, tenuto conto dei tanti limiti di quel particolare momento storico. Ogni residenza ha dovuto imparare a gestire il problema al suo interno, creando nuclei Covid destinati alla cura e alla gestione di queste persone divenute improvvisamente “pazienti”. Fin da subito abbiamo dovuto fare i conti con la deprivazione sensoriale a cui li stavamo esponendo, oltre a quella affettiva. In molti casi (e potevamo dirci dei fortunati) eravamo vestiti con le tute utilizzate in passato per contrastare il virus dell’Ebola; di noi si vedeva solo una piccola fessura in corrispondenza degli occhi. Eravamo degli inverosimili canarini gialli che si muovevano un po’ goffi, impacciati, sudati, stanchi, privati improvvisamente di quelle che per moltissimi dei nostri anziani erano le unica modalità a loro disposizione per relazionarsi con il mondo esterno: i nostri volti con la loro mimica ed espressività, il tono delle nostre voci (assolutamente falsate dai filtranti facciali FFP2), il contatto fisico “diretto” dei nostri abbracci (che nel migliore dei casi avveniva attraverso un doppio strato di guanti monouso).
Modalità che per molti di loro rappresentavano la sicurezza che tutto andava bene, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. C’era poi una deprivazione di tipo emotivo, ma i nostri ospiti sono stati davvero bravissimi a sopravvivere a questo periodo così cupo. I più in gamba ci chiedevano spesso cosa accadesse fuori. Da dentro non si capiva appieno, lui (il virus, ndr) è un nemico che non si fa vedere, ma comprendi cosa distrugge; lui non lo vedi. Ci si sentiva costantemente in trincea, con delle priorità da soddisfare, non potendo fare tutto. Prima fra tutte quella di ridare normalità alla vita di queste persone, in un contesto assolutamente anomalo, a tratti surreale. L’uso degli smartphone metteva spesso in difficoltà gli anziani generando in alcuni casi vere e proprie dispercezioni; a causa dei loro problemi sensoriali (di vista o di udito) e/o per effetto delle loro disabilità cognitive spesso facevano fatica a riconoscere i loro interlocutori e a capire i messaggi che venivano inviati loro.
Per quanto possibile si è cercato di favorire la vicinanza con le loro famiglie, quanto meno in situazioni di particolare gravità. Il morire in solitudine è un’esperienza a mio avviso davvero “poco umana”, difficile da sopportare tanto per chi ci lascia, quanto per il famigliare/amico a cui è negata la possibilità di un saluto, di un’ultima carezza. Quando, finalmente, abbiamo potuto allentare le misure restrittive della “prima ora”, forti tanto per l’assenza di casi positivi sia tra i residenti che tra il personale, quanto per la sicurezza generata dalle “buone scorte” di DPI, da procedure igienico-sanitarie rivelatisi efficaci, dalla sistematicità dei test di screening da noi stessi somministrati (dopo formazione assicurata dal nostro Distretto sanitario) mensilmente su tutti i residenti/utenti ogni mese (ogni 15gg per noi operatori) e, non ultimo, grazie alla tempestività con cui siamo stati inclusi nella campagna vaccinale, ha preso avvio un processo “riabilitativo”, inteso nel senso medico del termine, cioè di recupero delle “funzioni” lese da un evento traumatico.
Come succede nella pratica clinica, questo percorso, avvenuto attraverso vari step e tuttora in corso, ha visto come obiettivo principale quello più volte richiamato di un ritorno alla nostra vita di sempre e perché no, anche migliore di prima.
In tal senso, una delle prime criticità ad essere affrontata è stata quella di ricomporre per quanto possibile i legami affettivi con le famiglie; si è, quindi, pensato subito su come riaccogliere i parenti in sicurezza. In tal senso la stagione estiva ci ha aiutato e nel giardino della residenza sono state installate varie postazioni destinate alle visite.
Altri aspetti, sono in apparenza superficiali, mi hanno vista chiedere ai cuochi della nostra cucina di ripristinare quanto prima dei menu curati e appetitosi. Il COVID non doveva intaccare il piacere del mangiare bene, insieme. Nel periodo “buio” era stata sospesa la distribuzione dei quotidiani e delle riviste e solo chi aveva la televisione in camera poteva vedere cosa accadeva “fuori”. L’ambiente di vita che ci caratterizzava non aveva più le caratteristiche di un tempo. I dosaggi di psicofarmaci somministrati ai residenti erano aumentati: il prezzo da pagare per controllare i disturbi comportamentali che si erano scompensati e le depressioni alimentate dal disagio. In quei momenti tutto sembrava finito, il nostro passato cancellato, eccetto le prestazioni sanitarie che in modo anomalo si erano super evolute, in una realtà nata con un altro mandato.
Fortunatamente tutto ciò è solo un brutto ricordo.
Come succede spesso in situazioni limite come questa, la forza del gruppo (anziani e personale insieme) e la sua capacità di “resistere” hanno fatto la differenza. Ecco, quindi, nascere i brevi filmati da inviare alle famiglie (tanto in residenza che nei centri diurni) con cui condividere i progressi dei loro congiunti o momenti lieti organizzati all’interno della Casa/servizio. O ancora, l’organizzazione di un mercatino allestito nel giardino della Residenza in cui, al momento delle visite dei famigliari, mettere in mostra i manufatti dei loro cari. La ripresa della produzione delle marmellate, il restyling degli ambienti fisici con pitturazioni fresche e colorate, o l’acquisto di nuovi arredi, la riattivazione dei vari laboratori creativi (di cucina, artistici, musicali …), l’introduzione di nuovi piccoli amici (come i nostri canarini del centro diurno). Piccole grandi strategie per comunicare che i nostri vecchi (e noi con loro) stanno recuperando forze, energie e hanno ancora tanta voglia di “vivere” (e non di “sopravvivere”) una vita degna di questo nome.
In quest’ottica, un’ulteriore novità è quella di esserci organizzati per garantire visite quotidiane tra residenti neo accolti e i loro congiunti nel corso del primo mese dall’ingresso. In tal modo si rende meno faticosa un momento (quello dell’ingresso in struttura) e una scelta comunque mai semplici e che il COVID ha ulteriormente complicato. Infine, abbiamo intensificato le comunicazioni tra operatori e famiglie, facendole sentire il più possibile parte attiva nel processo di cura. Lo dobbiamo perché ci affidano i loro cari. I famigliari non riescono più a tollerare l’aggravamento comportamentale dei loro parenti e la fragilità che ne deriva. Sono diventati sempre più vulnerabili, per certi versi perfino più fragili dei loro stessi congiunti».
L’umanizzazione del lavoro che rimetta al centro dell’attenzione la persona
« Che la pandemia abbia indotto tanti danni psicologici visibili in tutte le fasce di età è cosa nota ai più. L’esperienza personale maturata in questi mesi mi porta ad affermare che mai come ora lo stato di salute (sia fisico che psicologico) delle famiglie che hanno in carico persone non autosufficienti è fortemente a rischio. Cambiamenti anche minimi nella condizione dei loro congiunti, li espone a reazioni stressanti foriere di scelte a volte davvero difficili da comprendere (ad es istituzionalizzazioni intempestive), che in altri tempi non avrebbero mai fatto o, addirittura, avrebbero fortemente criticato. Sono famiglie stanche, usurate, bisognose di ascolto e di supporti concreti. Come gli anziani, anche le famiglie gridano a gran voce il bisogno di tornare a una vita normale, fatta di piccole cose gratificanti. Terapia della normalità è ciò di cui tutti abbiamo un gran bisogno. Terapia della normalità vuol dire vita. Troppo spesso la nostra società considera i vecchi e i disabili come persone che, a priori, sono “anomale”, incapace com’è di vedere e valorizzare le loro specificità, le loro capacità residue. Da molti anni io e la mia squadra (siamo un gruppo di professionisti con competenze molto diverse fra loro, in cui le gerarchie sono bassissime, c’è massima flessibilità e interscambiabilità fra professionisti e il ruolo dell’animatore gioca un ruolo centrale) facciamo di tutto per evitare questo stigma. La terapia della normalità è quella che quotidianamente portiamo avanti all’interno dei nostri centri diurni, basata su piccoli atti quotidiani, tanto semplici (o all’apparenza tali) quanto importanti da un punto di vista affettivo, parte integrante della nostra storia di vita.
Proprio a questa terapia fa riferimento il nome che abbiamo dato al nostro servizio: “A casa mia”. Sulle prime, può sembrare scontato o addirittura banale, in realtà dietro a questa denominazione c’è una storia densa di significati che risale a diversi anni fa. Uno dei nostri primi utenti (all’epoca poco più che sessantenne, con gli esiti di un brutto ictus e una depressione secondaria) colloquiando con un giornalista che era venuto in visita, se ne uscì dicendo con grande naturalezza: “se qualcuno mi chiede: dove vai ogni mattina? io gli rispondo: vado a casa mia”.
La terapia della normalità sta alla base del nostro percorso riabilitativo di rinascita dopo il COVID. Come ho detto in precedenza, anche nel periodo più buio della pandemia abbiamo sempre voluto mantenere vivo fra i nostri utenti e le loro famiglie la percezione che la “nostra casa c’era ancora” e che questa particolarissima famiglia allargata a cui tutti noi apparteniamo non era stata distrutta neppure dal COVID. Lo abbiamo fatto con le modalità che la tecnologia moderna ci offriva, ovvero una piattaforma digitale che ha permesso di mostrarci, reciprocamente, in una veste nuova, ancora più intima, più vera: quella delle nostre case, con i nostri figli che scorrazzavano avanti e indietro per la stanza, o il gatto che transitava sulla tastiera del computer per farsi notare. Venivano garantiti interventi per piccolo gruppo (con utenti con caratteristiche e bisogni omogenei) o individualizzati condotti dall’educatore, il fisioterapista e l’animatore garantiti ogni pomeriggio 5 giorni su 7.
Non a caso il progetto (che a settembre abbiamo presentato a Treviso al Convegno di Psicogeriatria: “50 sfumature di cura”) si chiamava “A Casa Vostra”. L’entusiasmo e la passione che ci avevano sostenuto in quelle giornate, portandoci a reggere dei veri e propri tour de fource telefonici a supporto delle famiglie (anche al di fuori del canonico orario di servizio) o ad elaborare materiali che in grandi bustoni venivano recapitati a casa dei nostri vecchi per continuare a stimolarli e a non farli sentire soli, sta animando anche l’oggi. Le esperienze intense di quelle giornate non sono state sterili, in quanto hanno fornito una motivazione ancora più forte per sviluppare nuovi modelli di cura in cui la persona sia davvero collocata al centro.
Personalmente ritengo che la pandemia sia stato un evento “straordinario” che ha condotto a tante perdite ma che, al contempo, ha portato a ripensare in modo profondo il modo di fare assistenza, fornendo, quindi, delle grandi opportunità di cambiamento. L’oggi lo vedo ricco di progettualità in parte decollate e in parte ancora ferme “in panchina” (spesso per mancanza di finanziamenti dedicati): un progetto di archeologia inclusiva con l’università (gli archeologi, formati dal geriatra, entrano in casa di riposo e realizzano piccoli laboratori e/o accompagnano i residenti/ utenti dei centri diurni nei musei), la ripresa delle uscite nelle fattorie didattiche, negli agriturismi, ma anche progettualità che promuovano incontri tra generazioni diverse, utilizzando come denominatore comune la cultura colta nella sua interezza (teatro, musica, arte figurativa, letteratura). In sintesi: nulla sarà più come prima, ma potrebbe perfino essere meglio».
L’intervista alla dottoressa Gabriella Bellini è stata realizzata quando la diffusione del virus aveva rallentato a tal punto da favorire la riapertura totale delle attività, guardano fiduciosi ad una ripresa delle attività in presenza. All’atto della pubblicazione nulla per ora è cambiato ma le previsioni della recrudescenza dei contagi potranno modificare in molte regioni le decisioni di limitare sia gli spostamenti che le attività sociali, relazioni, e culturali. È in atto una proposta di introdurre obbligatoriamente il green pass (una sorta di passaporto rilasciato a chi ha effettuato le due dosi di vaccino) per circolare liberamente sia in Italia che all’estero.