BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Esistono In Italia libertà d’espressione, forme di censura, o autocensura in letteratura?

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Conversazioni con Dacia Maraini, Giancarlo De Cataldo, Lidia Ravera, Edoardo Albinati, Nadia Terranova e Alberto Rollo: un incontro tra letteratura ed editoria, con chi ha dato contributi determinanti nella crescita dell’industria culturale italiana, per riflettere sulla libertà d’espressione ‘nel nostro tempo’(Eugenio Montale).

“Leggere è un’attività superiore a quella dello scrivere. Più rassegnata, più civile, più intellettuale”. Jorge Luis Borges

“Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Articolo 21 della Costituzione italiana.

L’ articolo che segue (con un certo margine di ritardo rispetto al precedente, dovuto al non semplice compito di mettere assieme più autori), porta avanti un primo incontro, sulla Censura cinematografica, con alcuni registi del cinema italiano, i quali hanno dato uno sguardo prezioso sulla realtà e sono intervenuti in una riflessione collettiva con entusiasmo e sincerità: https://www.articolo21.org/2021/05/il-cinema-e-libero-dallo-censura/

Ogni autore, in questo secondo, sfaccettato lavoro collettivo, ha saputo raccontare a proprio modo le forme differenti di ‘contenimento’, più o meno percepite, anche con riferimenti a tempi e a scrittori lontani eppure presentissimi del mondo editoriale.

Si noterà che Edoardo Albianti ha scelto una forma differente dall’intervista per parlare di un argomento delicato e apparentemente affrancato da vincoli come la libertà di espressione in letteratura, nell’Italia liberata da oltre 70 dal Fascismo assassino del pensiero, ma inevitabilmente sottoposta a limitazioni, più intime che concrete certamente, e che stanno dentro e (forse) fuori di chi scrive.

Nell’intricato mondo letterario, la libera espressione del pensiero tramite la parola scritta, è garantita davvero, anche dal mercato? Si scrive per raccontare ciò che si vuole davvero raccontare, o per vendere il più alto numero di libri possibile, o per entrambe le cose contemporaneamente?  Il lavoro di autore ed editor, che collaborano nel rendere l’oggetto libro il riflesso del mondo interiore di chi scrive e di quello di chi legge, è sempre sincero? E’ giusto dire che gli scrittori, in Italia, scrivono sempre ciò che ‘vogliono’, o non sarebbe più corretto dire che scrivono ciò che ‘possono’, rispetto a quanto di se stessi sono in grado di esprimere nel testo e rispetto a quanto il lettore possa sopportare di  accettare e di scoprire tramite il testo?

Lo scopo di queste domande è quello di stimolare alcuni autori sulla loro stessa e comune, libera diffusione della parola scritta, confrontandosi anche con chi si cura di traghettare l’ espressione d’arte letteraria, che è il libro – con la sua ‘aura’ di mistero e unicità –  verso la sua stessa diffusione di oggetto di merce – oggetto di consumo per le masse nell’evoluzione riproducibile del tempo, caratterizzata dalla diffusione dei massmedia – nell’industria culturale (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936) contemporanea, in Italia.

Un ulteriore stimolo a questo incontro, è dato dalla sensazione che, da troppo tempo, il confronto tra gli scrittori (così come tra i registi e tra tutti coloro che usano una forma di espressione comune), sia sempre più difficile e relegato a incontri, competizioni e festival: contesti piuttosto autoreferenziali che, si teme, poco entrano in contatto con l’intera società. In un mercato, per altro, che spinge all’affermazione del ‘nome dell’autore’, piuttosto che a un coinvolgimento collettivo dell’idea di ‘intellettuale’ come persona che metta creatività, mestiere, competenza, consapevolezza  individuali, al servizio della società, appunto, verso la comprensione e, eventualmente, il progresso della stessa.

Dacia Maraini: “Per me, la censura consiste in qualcosa di semplice e insinuante: la fretta. Qualsiasi lavoro oggi sottostà a questa stringente spinta sui tempi di  produzione”.

1. Esiste la censura, in letteratura, oggi? Vige, cioè, un sistema editoriale che limita e, anche in modo non dichiarato, controlla ciò che l’autore scrive (magari mascherando la cosa con discrepanze e/o contrasti tra la linea editoriale della società che pubblicherà il libro e ciò che l’autore, nonostante accordi e contratti pregressi, vuole esprimere di sé e del mondo che racconta)?

R. “No, direi proprio che non esiste una censura in letteratura. Per chi ha una normale frequentazione con i romanzi che escono oggi, sa che si racconta di tutto e con linguaggi liberi, sia dal punto di vista politico che del senso del pudore. Esistono semmai delle linee di tendenza, ma direi che quelle funzionano di più sui giornali. Gli editori non dimostrano intenti moralistici: se un libro non piace, lo rifiutano. E l’autore è libero di proporsi a un altro editore”. Semmai possiamo parlare di una forzatura del mercato. Si pubblica ciò che vende, anche perché gli editori sono tutti privati e fanno calcoli economici”.

2. Pensa che il sistema di controllo esterno (editoriale) e una forma di autocensura da parte degli autori stessi si siano infittiti, nel corso del tempo, adeguandosi a un sistema d’informazione e narrazione e immagini che mira al consenso a tutti i costi, piuttosto che al conflitto, alla scomodità, all’approfondimento?

R. Sinceramente, non riscontro questo controllo. In che cosa consisterebbe poi? Sono le dittature che praticano la censura, perché non sopportano che si critichi il regime, ma da noi regnano più che altro forme di confusione e di anarchia, per cui si trova di tutto nei libri pubblicati. Che ci sia una ricerca del connsenso è pacifico. Le case editrici non rappresentano lo Stato, ma appartengono a privati e vogliono vendere i loro libri. E siccome non esiste una opinione pubblica allineata su un solo fronte, ma siamo di fronte a tantissime prese di posizione spesso ai limiti della sciatteria e della improvvisazione, gli editori provano a mettere sul mercato di tutto, sperando nel consenso”.

3. Pensa che l’impegno ‘positivo’ di una certa parte degli scrittori italiani contemporanei sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda, in cui tecnologia (e social network) e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri?

R. “E’ stato detto e ripetuto che la letteratura non è lì per dare consigli o fare le prediche, ma per farsi domande che spesso non hanno risposta, per capovolgere i luoghi comuni, per indagare sui misteri dell’inconscio. Scrivere vuol dire attivare un processo di conoscenza, non certo una strada di certezze. Ciò detto, quando uno scrittore ha acquisito una certa autorevolezza per i libri che ha scritto e che sono stati apprezzati per la loro complessità, spesso sente il dovere di intervenire, non tanto sulla politica, quando sulle grandi questioni sociali della sua epoca. Stavo proprio leggendo Grossman che, in una bella intervista, dice la sua su questa orribile guerra fra Israele e Palestina. Non mi sembra uno scrittore che si adegua ai tempi per un senso superficiale di correttezza politica. E’ legittimo che chi ha acquistato un prestigio intellettuale, faccia conoscere il suo parere. Se Grossman, che è uno scrittore raffinato e certamente non impegnato in maniera grossolana, dice che il suo governo sbaglia a pensare di risolvere le cose con una guerra aggressiva, è importante che lo faccia. E’ importante che una voce autorevole ribadisca che essere israeliano non vuol dire accettare a occhi chiusi la politica aggressiva e prepotente del governo del suo paese”.

4. Il ‘discorso letterario’ dovrebbe costituire uno strumento insostituibile di conoscenza. Se non di intervento, sicuramente di diagnosi di alcune ‘storture’, che dal mondo finiscono nel testo e viceversa. E’ davvero possibile, oggi, fare in modo che questo strumento sia libero di dire qualsiasi cosa voglia l’autore?

R. “Io penso di sì. Per me la censura consiste in qualcosa di più semplice e insinuante: la fretta. La velocità con cui gira la produzione dei libri, la pressione che viene fatta sugli autori perché pubblichino un libro l’anno è una forma di censura sui tempi dell’approfondimento. Ma questo riguarda tutta la nostra vita. Qualsiasi lavoro oggi sottostà a questa stringente spinta sui tempi di produzione . I cambiamenti sono rapidi e bisogna adeguarsi. Si produce in fretta per poi gettare via in fretta, come si fa con gli oggetti in tempi di consumismo. Il solo pericolo che corre uno scrittore da noi oggi è quello di produrre oggetti di consumo”.

5. La ‘ricerca letteraria’ sull’ ‘esser_ci’ è anche formale. Pensa che l’ ‘allegerimento’ generale della comunicazione incida, da parte di editore e autore, nella cura letteraria?

R. “Sento, in questa domanda, un atteggiamento di sufficienza verso tutti i romanzi che escono e questo non mi pare giusto. Non si può mettere tutto nello stesso sacco e buttarlo a mare. Parliamo dei libri, uno per volta, con attenzione e generosità. Non esiste una tendenza unica: esistono romanzi più o meno belli, più o meno frettolosi, più o meno conformisti, più o meno sinceri, più o meno elaborati. Giudichiamoli uno per uno e non buttiamoli tutti a mare dicendo che la letteratura di oggi è poco valida perché omogenea e falsamente impegnata. Chi stabilisce in che modo si deve esprimere uno scrittore? Sento tornare l’atmosfera degli anni del disimpegno teorizzato dal Gruppo 63. Anche allora degli scrittori agguerriti hanno cominciato ad attaccare gli autori di successo del momento: Cassola, Moravia, Elsa Morante, Pasolini, Bassani, Soldati Lalla Romano, Natalia Ginzburg… Gli scrittori che combattevano contro l’impegno, anche allora erano severi nei loro giudizi: uno su tutti per esempio il povero Cassola che chiamavano ‘Liala 63’ e lui ne ha sofferto tanto che si è ammalato. Quei giovanotti insofferenti teorizzavano il disimpegno e la morte del romanzo. Poi sono diventati tutti dei bravi dirigenti di aziende culturali e di giornali. La cosa piu assurda è che il più deciso denigratore dei romanzi tradizionali ha poi scritto un romanzo a sua volta tradizionalissimo: un romanzo mistico poliziesco che ha avuto un grande successo internazionale. E da quel momento è morta l’avanguardia 63”.

Giancarlo De Cataldo: “Quando un autore millanta di scrivere solo per sé, ignorando il pubblico, ovvero i suggerimenti editoriali, mente. Non credo nel controllo editoriale, ma nell’accordo editoriale: il libro è partorito dallo scrittore, ma posto in vendita, distribuito, lanciato e assecondato dall’editore. Se un editore ha il polso del mercato, vuol dire che ha il polso del tempo. Non tenerne conto è un atto di presunzione immotivato”.

Esiste la censura, in letteratura, oggi? Vige, cioè, un sistema editoriale che limita e, anche in modo non dichiarato, controlla ciò che l’autore scrive (magari mascherando la cosa con discrepanze e/o contrasti tra la linea editoriale della società che pubblicherà il libro e ciò che l’autore, nonostante accordi e contratti pregressi, vuole esprimere di sé e del mondo che racconta)?

“Non è un’esperienza della quale io possa riferire in prima persona, perché non mi è mai capitato. Nella produzione di libri – personalmente- mi è sempre accaduto di confrontarmi con editor di alto spessore (il compianto Severino Cesari di Stilelibero, Francesco Colombo, che ne ha preso il posto, Michele Rossi e Tommaso De Lorenzis e altri) nell’abito di rapporti franchi e costantemente orientati alla realizzazione del “miglior libro”. Come si capirà dall’incipit di questa risposta, non condivido la mistica dell’Autore che combatte, come un gladiatore solitario, contro l’avido editore/mercante che ha il solo scopo di vendere quanti più libri possibile. Quando un autore millanta di scrivere solo per sé, ignorando il pubblico (vale a dire: il potenziale successo dell’opera) ovvero i suggerimenti editoriali (vala dire, né più né meno, lo Zeitgeist, lo spirito del tempo), mente. Sono ormai abbastanza esperto nel settore, dopo trent’anni e passa di romanzi editi, per poterlo affermare. Non credo, in definitiva, nel controllo editoriale, ma nell’accordo editoriale: il libro è partorito dallo scrittore, ma posto in vendita, distribuito, lanciato e assecondato dall’editore. I più intelligenti entrano, nel reciproco rispetto, anche nella fase ideativa. Se un editore ha il polso del mercato, vuol dire che ha il polso del tempo. Dello spirito del tempo. Non tenerne conto è un atto di presunzione immotivata. I grandi pittori rinascimentali dipingevano Madonne e Deposizioni perché erano soggetti che i loro committenti invocavano, e loro “evocavano” il soggetto mettendoci un’arte sublime. Lo stesso dicasi per gli artigiani, classe alla quale mi onoro di appartenere: producevano (e talora ri-producevano) ispirandosi allo spirito del tempo. Per quanto mi riguarda, infine, in quei due o tre casi nei quali ho proposto agli editori suggestioni, diciamo così, azzardate (lo stesso Romanzo Criminale fu considerato tale, inizialmente; il Risorgimento; L’Agente del Caos) si è sviluppata una proficua dialettica, che ha condotto prima all’esposizione dei punti di vista rispettivi, e infine alla concretizzazione di un progetto di libro in parte dissimile dall’idea originaria. Ma in meglio, e come frutto di una fruttuosa collaborazione. Altre sono le forme di censura, e ne parleremo in seguito”.

Pensa che il sistema di controllo esterno (editoriale) e una forma di autocensura da parte degli autori stessi si siano infittiti, nel corso del tempo, adeguandosi a un sistema d’informazione e narrazione e immagini che mira al consenso a tutti i costi, piuttosto che al conflitto, alla scomodità, all’approfondimento? Pensa che l’impegno ‘positivo’ di una certa parte degli scrittori italiani contemporanei sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda, in cui tecnologia (e social network) e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri?

“Mi permetto di rispondere alle due domande in un unico contesto, perché mi sembra che discendano da una premessa comune. Esisterebbe una letteratura rassicurante e una perturbante. Quella rassicurante sarebbe assistita dalla ricerca del facile consenso, quella perturbante – lo denuncia l’aggettivo in sé- sarebbe aggressiva, carica di dubbio, ricca di un pensiero dialetticamente più avanzato, e via dicendo. Non posso convenire, ad esempio, sulla collocazione nel primo settore del “noir” o del “crime” e affini. Almeno non per quanto riguarda esperienze che vanno dal grande hard boiled degli anni Trenta al noir italiano degli ultimi anni. Che, semmai, si è connotato, almeno per tutti gli anni Novanta e Duemila, per una costante tensione verso quelle che Lucarelli definiva le “domande imbarazzanti” del nostro contemporaneo. Misteri italiani irrisolti, la mutazione genetica del nostro Paese, l’emergere della figura dello Straniero, le Mafie… questi i grandi temi che sono stati affrontati, e francamente accusare di messianesimo (guarire il mondo, predicare il bene, ecc.) questo tipo di scrittura mi pare alquanto discutibile.

Per altro, vorrei soffermarmi su un dubbio che sottende entrambe le domande: si vuole forse alludere alla tradizionale dicotomia fra letteratura alta e bassa? Qui ho esperienze personali. Una riguarda Angelo Guglielmi, che mi onorò di una recensione assai lusinghiera sull’Unità (Romanzo Criminale), poi mi telefonò e mi chiese quanto fossi alto. Intendeva dire: sei un giallista o uno scrittore vero? Risposi: Maestro, sono 1,80. Intendevo dire: la questione non mi concerne, non la prendo in esame. E posso confermare: è una vita che combatto contro questa distinzione e le etichette che si trascina appresso. Le etichette sono un ottimo “bugiardino” per alimenti, servono a evitare che si metta in vendita la maionese scaduta, e niente di più. Ma su questo aspetto del rapporto fra letteratura e genere vorrei riprendere l’insegnamento che mi fu impartito da Giuseppe Petronio, critico letterario con la passione del “giallo”, che considero uno dei miei massimi punti di orientamento nella galassia del gusto: caro De Cataldo, in Italia non ti diranno mai che hai scritto un bel romanzo poliziesco, perché l’Accademia considera inconciliabili i due aggettivi. Il romanzo o è bello o è poliziesco. Petronio è consapevolmente gramsciano, si ispira al Gramsci che punta il dito contro la borghesia letteraria e letterata che alimentò, alimenta e ahimè in perpetuo alimenterà le Accademie. Mi piace ricordare, al riguardo, la giurata di un noto premio letterario: caro De Cataldo, se un romanzo non ha un vago sentore di muffa, se non è un filo noioso, il premio non lo vince. Curiosamente, qualcosa di assai simile l’avrei riscontrata come sceneggiatore, quando mi fu spiegato che esistono film da sala e film da festival, intendendosi con i secondi quelle opere, appunto, un po’ noiose e con un vago retrogusto di muffa. E qui, entra in gioco un aspetto importante: il rapporto fra opera d’arte (o prodotto culturale, meglio) e successo. Il grande rimosso. Romanzo “rassicurante” sta qui per “facile”. “Facile” sta per “che si vende bene”. Romanzo perturbante sarebbe “difficile”, “difficile” sarebbe lontano dalle classifiche. Compromesso il primo, “puro” il secondo. Una distinzione che mi è molto chiara: nella  mia adolescenza, negli anni Settanta, la musica che consumavamo avidamente si divideva in “commerciale” e no. La “no” era musica pura. Simile  categorizzazione escluderebbe Dalla, Battiato, Battisti, ma anche, andando a ritroso, Verdi, Puccini, Haendel, Chopin… e, tornando a noi, la Ferrante, Il racconto dell’ancella, e, a ritroso, Dickens, Balzac, Maupassant, Victor Hugo, scrittore, orribile a dirsi, “popolari” (e non per questo “facili” o “rassicuranti”). Riprendo Petronio: per me esistono solo libri scritti bene e altri meno”.

Il ‘discorso letterario’ dovrebbe costituire uno strumento insostituibile di conoscenza. Se non di intervento, sicuramente di diagnosi di alcune ‘storture’, che dal mondo finiscono nel testo e viceversa. E’ davvero possibile, oggi, fare in modo che questo strumento sia libero di dire qualsiasi cosa voglia l’autore?

“Si sarà capito che io contesto radicalmente l’esistenza di un’età dell’oro nella quale l’autore era libero di dire qualunque cosa, sostituita, oggi, da un’età dell’accomodamento e dell’autocensura. Schiller fu costretto ad andare in esilio nel 1781 perché autore dei Masnadieri. Scrisse un’appassionata autodifesa: racconto il Male e lo rendo affascinante, lo ammetto, perché devo farne percepire l’epica grandezza, in  modo da stimolare nel lettore (spettatore) quel brivido di orrore che deve accompagnare la consapevolezza dell’esistenza e della pericolosità del male stesso. Non posso descrivere la tigre senza enfatizzare lo splendore del suo manto. Se la trasformassi in un lepido gattino verrei meno alla mia funzione (qui, sì, è il caso di usare il termine) di scrittore e drammaturgo. Il lettore deve insomma essere preso per mano e scortato attraverso “i labirinti della notte”. Per poi riemergerne. Altro che narrazione rassicurante. Si chiama “catarsi”. Il problema oggi, depurato dall’editore cattivo (ma Mondadori potrà essere peggiore di uno di quei cardinali felloni o di quei papi traffichini che commissionavano capolavori a Caravaggio e Guido Reni?) potrà semmai riguardare il rapporto con tematiche emergenti come il blackface o la cancel culture. E qui andrei direttamente, nel merito, alla domanda che segue”.

La ‘ricerca letteraria’ sull’ ‘esser_ci’ è anche formale. Pensa che l’ ‘allegerimento’ generale della comunicazione incida, da parte di editore e autore, nella cura letteraria?

“Accennavo a come nel “noir” non ci sia stata nessuna “ricerca del bene”.  Bisogna mettersi d’accordo: ci spaventano gli esempi virtuosi o, per riprendere Schiller, la camminata accanto alla tigre? Sono piuttosto preoccupato da altro, come anticipato: la tendenza a giudicare secondo parametri e modelli oggi socialmente accettabili opere ideate in contesti del tutto diversi. Per non parlare poi dei “social” e del loro effetto perverso. Qui il pericolo è reale. Perché oltre a ideare finali alternativi di opere liriche o a censurare le parti più indigeste di capolavori di Shakespeare o di Verdi, il rischio di un condizionamento pesante della creatività è evidente. In campo audiovisivo è già una realtà. Purtroppo. Ci sono algoritmi che impongono archetipi narrativi obbligati con effetti spesso tragicomici. In campo letterario non mi pare che si sia ancora giunti a tanto, ma è verosimile che possa accadere. Ed è questo il contesto nel quale occorrerà vigilare, in futuro”.

 

Lidia Ravera: “Viviamo in regime di Happycrazia. La letteratura insegue la semplificazione, la rassicurazione, la politica delle buone intenzioni”.

Esiste la censura, in letteratura, oggi? Vige, cioè, un sistema editoriale che limita e, anche in modo non dichiarato, controlla ciò che l’autore scrive (magari mascherando la cosa con discrepanze e/o contrasti tra la linea editoriale della società che pubblicherà il libro e ciò che l’autore, nonostante accordi e contratti pregressi, vuole esprimere di sé e del mondo che racconta)?

“Una volta esisteva e io ne ho fatto le spese: nel 1976, Giovanni de Matteo, procuratore della repubblica a Roma, ha condannato per oscenità e sequestrato Porci con le ali: “Nel tentativo di evitare il ‘corrompimento’ della moralità, della legalità che costituisce un pericolo per i nostri figli” (spiegava nella sentenza). Il critico letterario Fausto Gianfranceschi scrisse, a commento: “Ogni giorno di più, mi convinco della giustezza e della sacralità dei divieti che difendono le delicate strutture dell’eros”. Ora, “le delicate strutture dell’eros” non le difende più nessuno. E’ una fortuna? Certo, all’epoca andavano giù duro: Gianni Statera, insigne sociologo, dichiarò che il sequestro: “finirà per fare il gioco degli autori e degli editori”. Mi difese Stefano Rodotà: “Il sequestro di Porci con le ali (…) rivela l’esistenza di un intenzione politica di più larga gittata che appare politicamente assai sospetta, Quando in giro ci sarebbero 100mila pubblicazioni più facilmente perseguibili, il censore impugna un provvedimento in cui il sesso è solo lo strumento per veicolare, in ambito giovanile ben altri contenuti. Questo ennesimo attentato alla liberta’ di pensiero dovrebbe dare alle sinistre finalmente l’occasione per uscire dal lungo sonno”. Magari l’avessero ascoltato “le sinistre”. Invece, non mossero un dito. Anzi, con qualche lodevole eccezione, ci tirarono un bel po’ di fango addosso. Infatti il loro successo fra i giovani fu presto pari a zero. E tale resta. Fortuna che nessuno censura più nessuno. Non per le parolacce, che la classe dirigente ha sdoganato grazie alle perle raccolte ascoltando le intercettazioni. Non per il sesso, che è ormai una ginnastica come tante altre, da incoraggiare come un kamasutra o una dieta. Dunque viviamo nella terra della libertà espressiva? No, ma il condizionamento non è così smaccato. La censura, qualora non bastasse l’autocensura, si applica, subdolamente, ai libri “difficili”, poco immediati, complessi, magari poco edificanti. Insomma, a tutti i libri che, per un motivo o per l’altro, non saranno accolti positivamente dalla maggioranza. E’ la vittoria del mercato. E’ il mercato che censura i prodotti meno adatti a essere venduti, a scalare la vetta delle classifiche, ad accumulare “like”. La smania del successo fa il resto: molti scrittori si censurano da soli e finiscono per mondare i loro testi da ogni sgradevolezza e carezzare nel senso del pelo un pubblico, che tutti sognano sempre sterminato”.

Pensa che il sistema di controllo esterno (editoriale) e una forma di autocensura da parte degli autori stes si si siano infittiti, nel corso del tempo, adeguandosi a un sistema d’informazione e narrazione e immagini che mira al consenso a tutti i costi, piuttosto che al conflitto, alla scomodità, all’approfondimento?

“Viviamo in regime di Happycrazia, la letteratura insegue la semplificazione, la rassicurazione, la politica delle buone intenzioni. Gli editori preferiscono i gialli, i noir, i polizieschi perché sono le fiabe degli adulti: c’è il delitto, c’è l’indagine, c’è il colpevole. I conti tornano. E si arriva in fondo senza aver scomodato troppo la riflessione su di sé, sulla propria vita, sulla vita. Si preferisce, oggi, divertirsi, cioè divergere da sè, piuttosto che rispecchiarsi ( e rischiare un esame di coscienza). Non c’è bisogno del trauma di una dittatura, in questo terzo millennio: non è per edificare un mondo diverso, (più giusto più equo più libero) che si combatte, ma per raggiungere e stabilizzare  l’indubbio piacere di essere approvati, incensati, comprati. Niente olio di ricino. Basta un passaggio televisivo, un po’ di pub, quattro complimenti. E voilà: il dissenziente ti mangia in mano. Come un cucciolo fiducioso”.

Pensa che l’impegno ‘positivo’ di una certa parte degli scrittori italiani contemporanei sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda, in cui tecnologia (e social network) e mercato imporranno  alla letteratura nuovi parametri?

“La mutazione legata alla tecnologia è questa ed è straordinaria: tutti scrivono. Prima scrivevano soltanto i monaci, gli intellettuali, gli scrittori. I poeti. Una minoranza assoluta. Adesso, con i blog le chat, i whatsapp, tutti si misurano con la scrittura. Credono di parlare e invece scrivono. Questo aumenta a dismisura il numero degli “scrittori”. E quindi i romanzi in circolazione. Tutti hanno pubblicato, stanno per pubblicare, pubblicheranno un romanzo. E intasano i social con fotografie di se stessi, mentre  stringono felici il frutto della loro creatività. Scrivono per potersi fotografare con il loro libro? E’ un effetto collaterale dell’esplosione di narcisismi che connota l’epoca post-ideologica? Certo è che, con questo allargarsi a macchia d’olio della pratica della scrittura, potrebbe aumentare il numero dei talenti. Ma bisogna che imparino a faticare, a soffrire, a entrare e uscire da crisi personali e universali. Produrre letteratura non è facile. Non è una passeggiata. Non è un passatempo (Per me è un modo di stare al mondo. Non so se fa bene a chi legge, ma salva la vita di chi scrive)”.

Il ‘discorso letterario’ dovrebbe costituire uno strumento insostituibile di conoscenza. Se non di intervento, sicuramente di diagnosi di alcune ‘storture’, che dal mondo finiscono nel testo e viceversa. E’ davvero possibile, oggi, fare in modo che questo strumento sia libero di dire qualsiasi cosa voglia l’autore?

“Diagnosi sì, ma incerte. Anamnesi piene di reticenze e rimozioni. La letteratura è Storia filtrata dalla vita di un personaggio-persona. E’ esatta, ma senza riscontri. Puntuale e tuttavia errabonda. Sempre imprevedibile. Inizi a scrivere cercando qualcosa e trovi qualcos’altro, qualcosa che non sapevi di voler trovare. E’ un sortilegio che si ripropone sempre uguale e sempre diverso. Dopo 30 opere di narrativa, ancora mi stupisco. I miei romanzi sono migliori di me. Sanno di più. Sono più onesti. E più coraggiosi”.

La ‘ricerca letteraria’ sull’ ‘esser_ci’ è anche formale. Pensa che l’ ‘allegerimento’ generale della comunicazione incida, da parte di editore e autore, nella cura letteraria?

“La scrittura è di per sé uno strumento di indagine. Nel momento in cui guardi il mondo per raccontarlo lo stai già analizzando. Fra uscire di casa con un quaderno addosso e uscire a mani vuote, c’è una gran differenza. La scrittura conferisce una forma alla realtà. La forma è parte del contenuto, non una carta colorata in cui si confeziona un plot”.

 

Edoardo Albinati: “In ogni scrittore ci sono più censori: dobbiamo inchinarci all’evidenza di non essere affatto liberi di scrivere quello che vogliamo, quando scriviamo”.

“Scrivere vuol dire continuamente creare e distruggere, cancellare senza pietà ciò che si è fatto, e che per un momento è potuto sembrare persino buono, o decente, immaginare per poi deviare altrove la propria immaginazione. Senza controllarsi severamente e poi liberarsi da quel controllo, in modo da accedere a una forma di controllo più elevata, la scrittura anche di una singola frase per non dire di un’opera intera resterebbe un puro esercizio personale: è la forma infatti (che alcuni impropriamente chiamano stile) l’unico risultato in letteratura che permetta di trascendere l’individuo che pure sembrerebbe esserne il titolare. E’ la forma la sola porta di accesso all’oggettività. Infatti, mentre dà l’impressione di caratterizzarlo e renderlo riconoscibile, inconfondibile (da cui il conio di aggettivi quali: kafkiano, pirandelliano, borgesiano e così via), una forma davvero riuscita in realtà si libera del suo autore, e insieme lo libera dall’individualità in cui era costretto, costipato. Ma ci vogliono infiniti passaggi per arrivarci, anche se alcuni di essi vengono bruciati in poche frazioni di secondo, per istinto o per mestiere. Il più rigoroso nell’esercitare una censura nei confronti di ciò che scrive dovrebbe essere lo scrittore stesso, poiché non vi è giudice più severo di chi rilegge una sua opera per emendarla. La prima persona a cui mettere il bavaglio è quell’io chiacchierone e smodato che  prolifera nella solitudine stessa della scrittura, nel suo carattere inevitabilmente solipsistico. La seconda persona da tenere a bada è il mestierante abile e talentuoso che sa sfornare formule incantatorie, e non cessa di metterne in fila una dopo l’altra, perché gli riescono bene, o benino, finendo per accontentarsene: al pubblico piacciono e non bisogna andare troppo per il sottile. La terza persona è il ribelle che vuole osare, vuole stupire a ogni costo, e scambia le proprie oscurità per invenzioni geniali, rivendica l’illeggibilità, dopo un paio di secoli che hanno permesso di confonderla con la poesia. La quarta persona è l’ingenuo  che si è entusiasmato per un’idea narrativa e non vuole mollarla nemmeno quando è chiaro che lo sta conducendo in un vicolo cieco: sarebbe capace di andarci avanti per un intero libro. La quinta persona è chi si lascia sedurre da un argomento di attualità, quello di cui parlano tutti, e così facendo si convince di mettersi in sintonia col mondo, per ovviare alla sensazione che lo coglie spesso di esserne escluso. Tutte queste persone e figure, e molte altre ancora, convivono in chi scrive, lo riempiono di voci e di esigenze diverse, e tocca allora a una specie di supervisore, o censore, mettere un freno alle pretese avanzate dal carattere, dalle aspettative, dalle speranze e dai risentimenti che animano lo scrittore, e che in molti casi sono anche la fonte primaria della sua ispirazione e dunque sarebbe molto dannoso reprimerle e tacitarle del tutto. Essendo questo magistrato egli stesso una figura interiore di chi scrive, i suoi interventi possono essere particolarmente violenti, arbitrari, utili o dannosi, oppure restare del tutto inascoltati. Il censore può essere facilmente sopraffatto dal vitalista o dal pigro o dal narcisista o dal faiseur a caccia di effetti a buon mercato. Ma se viene fatto fuori, c’è poco da fare, il risultato risulterà mediocre, a meno che sia opera di un puro genio istintivo, un Nijiskij della letteratura, che non ha bisogno di regole perché è egli stesso la regola. Tutti gli altri, da Balzac (prego vedere le sue bozze rilavorate) a Eliot (che ebbe come censore severissimo Ezra Pound…) fino a noi modesti italiani contemporanei dobbiamo inchinarci all’evidenza di non essere affatto liberi di scrivere quello che vogliamo, quando scriviamo. La libertà del resto non interessa o meglio non riguarda se non per aspetti marginali un’attività claustrale come la scrittura, e solo in quanto privato cittadino potrà giustamente rivendicarla un poeta o un romanziere, come soggetto politico, insomma, non certo mentre è al lavoro e si trova a districarsi tra obbligazioni di vario tipo, a confronto con potentissime strutture che gli preesistono, a cominciare dalla propria lingua, dalla sintassi, dalle infinite stratificazioni espressive che si è trovato a scandagliare, prima ancora che scrivendo, parlando, ascoltando e leggendo in quella data lingua come in altre. Anzi è sempre sorprendente quando ci si imbatte in qualcuno che è stato capace di distinguersi diciamo per un dieci per cento dal lascito comune e dai suoi vincoli, mentre il restante novanta per cento vi resta obbligato. Questo è per quanto riguarda gli ostacoli interni. Poi ve ne sono naturalmente di esterni, altrettanto poderosi, le leggi, il regime politico, la polizia, i grandi potentati economici con le loro oblique spinte censorie: ma prenderli in considerazione dal punto di vista di una società per molti versi libera e aperta come quella italiana mi sembrerebbe un lusso e in definitiva un’offesa verso chi, in un Italia diversa da quella di oggi, e in una buona metà  del mondo attuale rischia la prigione o la forca per quello che scrive”.

Nadia Terranova: “La scrittura è la perdita del controllo ed è anche dinamite pura”.

Esiste la censura, in letteratura, oggi? Vige, cioè, un sistema editoriale che limita e, anche in modo non dichiarato, controlla ciò che l’autore scrive (magari mascherando la cosa con discrepanze e/o contrasti tra la linea editoriale della società che pubblicherà il libro e ciò che l’autore, nonostante accordi e contratti pregressi, vuole esprimere di sé e del mondo che racconta)?

“Non ho mai riscontrato problemi di censura. Ho sempre scritto ciò che desideravo nella libertà totale e pien, sia nei miei articoli, sia nei miei racconti. Nel momento in cui avessi riscontrato un limite, sarei andata via, l’avrei denunciato, ma non è mai successo. Non mi hanno mai censurato, né mai istigato a scrivere di qualcosa piuttosto che di altro. Esercito la mia scrittura nella totale libertà e seguendo soltanto la mia ispirazione”.

Pensa che il sistema di controllo esterno (editoriale) e una forma di autocensura da parte degli autori stessi si siano infittiti, nel corso del tempo, adeguandosi a un sistema d’informazione e narrazione e immagini che mira al consenso a tutti i costi, piuttosto che al conflitto, alla scomodità, all’approfondimento?

“Non posso rispondere per altri, ma personalmente non credo che possa esistere una forma di autocontrollo. Gli scrittori nascono per scardinare qualsiasi forma di controllo. Non riesco a comprendere come si possa scrivere controllandosi, quando la scrittura è la perdita del controllo ed è anche dinamite pura. Non riscontro questa forma di controllo, quindi, né in me né nelle scrittrici e negli scrittori che amo e conosco”.

Pensa che l’impegno ‘positivo’ di una certa parte degli scrittori italiani contemporanei sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda, in cui tecnologia (e social network) e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri?

“Oggi scrittori e scrittrici sentono bisogno di prendere parola pubblica in virtù di una posizione letteraria. Questo, in parte, è sempre successo: basti pensare a Dante e alle implicazioni con la politica del suo tempo e, in parte, nei modi in cui viene praticato oggi (tramite post sui social, articoli, botta e risposta veloci)… Personalmente, non vedo che questo esporsi interferisca davvero con la letteratura”.

Il ‘discorso letterario’ dovrebbe costituire uno strumento insostituibile di conoscenza. Se non di intervento, sicuramente di diagnosi di alcune ‘storture’, che dal mondo finiscono nel testo e viceversa. E’ davvero possibile, oggi, fare in modo che questo strumento sia libero di dire qualsiasi cosa voglia l’autore?

“L’autore è libero di dire ciò che vuole, se lo desidera. Se vuole farsi costringere, al contrario, è un problema suo”.

La ‘ricerca letteraria’ sull’ ‘esser_ci’ è anche formale. Pensa che l’ ‘allegerimento’ generale della comunicazione incida, da parte di editore e autore, nella cura letteraria?

“Questa domanda sottintenda una sorta di presunto decadimento delle lettere. E’ un atteggiamento molto comune e, secondo me, sbagliato. Penso sia un errore pensare che oggi ci sia più leggerezza che in passato. E’ come se vivessimo sempre il presente come se il passato fosse migliore. Trovo che la letteratura contemporanea sappia dare grandi romanzi e credo che non ci sia questa leggerezza di cui tanto si parla”.

 

Alberto Rollo: “La mediazione culturale dell’editore continua a restare una funzione cruciale perché ad ogni libro pubblicato fa una scelta, e scegliere coincide con un gesto morale e civile”.

Esiste la censura, in letteratura, oggi? Vige, cioè, un sistema editoriale che limita e, anche in modo non dichiarato, controlla ciò che l’autore scrive (magari mascherando la cosa con discrepanze e/o contrasti tra la   linea editoriale della società che pubblicherà il libro e ciò che l’autore, nonostante accordi e contratti pregressi,  vuole esprimere di sé e del mondo che racconta)?

“L’unica forma di censura che può emergere nel lavoro dello scrittore è quella che lo stesso scrittore esercita su se stesso, di solito pensando non tanto al cosiddetto mercato quanto alla figura (per altro misteriosa) del lettore. Che cosa dirà il “mio” lettore? Questa è una interrogazione che passa nella mente di chi scrive. Ed è noto che a chi scrive piace piacere, e comunque – anche nei casi in cui il piacere è quello di voler dispiacere – quella preoccupazione finisce con il presumere un “contatto” con chi legge, che a volte determina una disposizione interiore sensibile all’opinione del mondo. Però diciamolo a chiare lettere: questa non può essere chiamata censura. La censura è ben altrimenti grave. E non c’è istituto letterario o impresa editoriale che si preoccupi di compromettere le idee di chi scrive.  E non si tratta tanto di indifferenza ideologica ma semmai di irrilevanza. Una affermazione di tal fatta è piuttosto severa, ma è così. Lo scrittore esercita una influenza neanche lontanamente paragonabile a quella degli scrittori ottocenteschi, quando Victor Hugo rappresentava il popolo di Francia e tutti i popoli dell’Occidente.  Les miserables ha toccato il mondo. Anche Harry Potter ha toccato il mondo, ma è stato il personaggio a svolgere la funzione che un tempo era dell’autore. Tornando alla censura, a me pare proprio di non essermi mai trovato nella condizione di esercitare forme di controllo”.

Pensa che il sistema di controllo esterno (editoriale) e una forma di autocensura da parte degli autori stessi si siano infittiti, nel corso del tempo, adeguandosi a un sistema d’informazione e narrazione e immagini che mira al consenso a tutti i costi, piuttosto che al conflitto, alla scomodità, all’approfondimento?

“Ribadisco quanto detto sopra. E comunque sarebbe affascinante trovarsi davanti a proposte che siano conflittuali, scomode, sempre profonde. Le aspettiamo tutti. Ce le auguriamo. Che esista un gusto dominante, è dato irrefutabile, e un’impresa editoriale lavora all’interno di quel gusto: che piacciano le saghe, le detective stories, i maghi, le storie d’amore fa parte della costruzione dell’entertainement. Detto questo sono sempre esistite forme di “anticipazione” che hanno rotto gli schemi e progressivamente si sono rivelate fondanti di un gusto in movimento. Si pensi a Thomas Bernhard, si pensi a Luciano Bianciardi, alla letteratura beat in America, si pensi a Pasolini e a Elsa Morante. Ma la “novità” passa anche per vie che non sono necessariamente provocatorie: si pensi a due grandi scrittori come Antonio Tabucchi e Daniele Del Giudice.

Va da sé che il conflitto e la scomodità non possono essere presenti per definizione: devono agire quando e dove meno ce lo aspettiamo. E gli editori, se son buoni editori, lo sanno, e hanno orecchie per le trasformazioni in atto.  Certo esiste (anzi è esistito e si è consumato) il fenomeno della satira, che spesso ha costretto gli editori ad attivare la collaborazione di avvocati – ma in questo caso siamo a forme di deliberata conflittualità che non è esattamente quello di cui stiamo parlando qui. La satira è un genere sacrosanto, che funziona quando sottilmente stravolge e diverte”.

Pensa che l’impegno ‘positivo’ di una certa parte degli scrittori italiani contemporanei sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda, in cui tecnologia (e social network) e mercato imporranno   alla letteratura nuovi parametri?

“Se per impegno positivo intende l’essere presenti degli scrittori, va da sé che un cambiamento c’è stato. Le nuove tecnologie della comunicazione hanno permesso una presenza prima impensabile. Essendo a tutto raggio, esposta a una moltiplicazione infinita, questa disposizione “ad esserci” ha le sue complicazioni. Ancora una volta – e sempre – scegliere è cruciale, e non meno cruciale è la selezione. È necessario sapere cosa dire, come dirlo e dove dirlo. I nuovi parametri hanno bisogno di slittamenti progressivi difficilissimi da governare ma molto interessanti da osservare. Siamo soverchiati dalle informazioni, ma anche qui il vero snodo possibile è quello di procedere per selezione. Se ci si pensa bene questo è lo stesso procedimento che uno scrittore ha davanti all’imminenza di una storia da scrivere: di fronte alla quantità di aperture deve sapere scegliere quali sono quelle funzionali alla logica della sua narrazione, e disporsi a rinunciare, a cancellare, a fare a meno. Così del resto lavora la memoria non artificiale. È necessario affrontare il tutto dell’informazione con la fermezza di chi sa di che cosa può fare a meno.

Vedo che siamo in un momento in cui gli scrittori si dividono fra chi vuole lavorare con i social e chi ritiene che non sia determinante. C’è in verità una terza area: quella di chi lascia all’editore la gestione del social.  Bisognerebbe analizzare bene che cosa siano i social letterari: per lo più si tratta di gruppi di blogger che esercitano con passione una funzione critica: leggono e pubblicano, e così tendono a sostituire la funzione che è sempre stata dei giornali e delle critica specializzata. Ma in realtà ci rendiamo conto che le stesse pagine culturali di quotidiane e magazine tendono ormai ad  affidare le letture critiche agli stessi scrittori, creando una sorta di interessante vortice interno. D’altro canto l’esempio originario è nobile, se si pensa a Pasolini: si vada ora a leggere le sue Descrizioni di descrizioni e si ha la netta sensazione di trovarsi davanti a uno spirito libero che non si lascia contagiare da sentimenti e logiche di amicizia.  Tornando alla mutazione in atto ora, credo che l’opinionismo letterario è vicenda ancora in formazione. Ora si ha la sensazione di trovarsi davanti a una società feudale dell’opinione: ogni social è un piccolo feudo e finisce per esercitare un piccolo potere. La somma dei piccoli poteri è di fatto un sistema, e di quel sistema un editore ha bisogno.  Altro versante è rappresentato dagli influencer che sono tutt’altra figura: il loro potere non è prodotto da una somma di voci ma dall’unicità di una voce. L’influencer non elabora una valutazione, ma per l’appunto “influenza”, crea consenso. Su questo aspetto bisognerà tornare più avanti per valutare quanto incide anche sulla creazione del gusto”.

Il ‘discorso letterario’ dovrebbe costituire uno strumento insostituibile di conoscenza. Se non di intervento,  sicuramente di diagnosi di alcune ‘storture’, che dal mondo finiscono nel testo e viceversa. E’ davvero  possibile, oggi, fare in modo che questo strumento sia libero di dire qualsiasi cosa voglia l’autore?

“Oggi non è diverso da ieri. A meno che lo ieri sia quello delle dittature. Non c’è alleggerimento in atto che impedisca forme di approfondimento.Lo scrittore è solo davanti alla pagina, e la pagina è il territorio in cui si manifesta la sua responsabilità rispetto al mondo. Nondimeno l’editore prende in consegna quella responsabilità manifestata attraverso la scrittura e la rende pubblica. La mediazione culturale dell’editore continua a restare una funzione cruciale perché ad ogni libro pubblicato fa una scelta, e scegliere coincide con un gesto morale e civile. La libertà di “dire quel che si vuole”, mi spiace ma è frase infelice. La libertà è anch’essa nella sfera della responsabilità: è dunque semmai  la dimensione dell’urgenza quella in cui è bene che si muove lo scrittore. Riconoscere un’urgenza e farne materia di scrittura è quello che ci aspettiamo veramente da una narrazione importante. E si badi bene, anche quella di intrattenere può essere un’urgenza: Ariosto ha inventato uno dei mondi più meravigliosamente seducenti della letteratura e si è divertito a farlo, lo sappiamo che si è divertito a farlo.

Scriveva per un signore, lui si sì che aveva a che fare con una furiosa forma di censura! Eppure ha saputo mettere la libertà nella fantasia. Nell’urgenza della fantasia. Perché non farlo ora?”.

La ‘ricerca letteraria’ sull’ ‘esser_ci’ è anche formale. Pensa che l’ ‘allegerimento’ generale della comunicazione incida, da parte di editore e autore, nella cura letteraria?

“No, ripeto che la leggerezza c’è sempre stata. È inutile intestardirsi a cercare un degrado, quando in realtà possiamo correggerlo nel lavoro che facciamo ogni giorno. Scrittrici e scrittori hanno la possibilità di non essere leggeri nel momento in cui assumono su di sé la necessità di rispettare la propria voce.  Che poi esistano fenomeni di mercato, che esistano libri di cucina, che esistano tutte le forme dell’ entertainement non tocca, ripeto, non tocca, la profondità di chi vuole affidare alla scrittura il rischio di esistere”.


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