E’ lo stesso Euripide – nelle Rane di Aristofane – a dare precise indicazioni circa la concezione del suo teatro: privo di un linguaggio pomposo – «per farli uscire di cervello» – e senza gli stordimenti «con cavalli, sonagli, pennacchi», ma pensato solo con lo scopo di utilizzare «analisi e ragionamento.» L’universo citazionista che la regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus) imbastisce per le «Baccanti» della stagione 2021 dell’INDA di Siracusa – da Alejandro Jodorowsky attraverso Twyla Tharp fino al Von Triers di Dogville, più che esplicito nella mappa geneaologica che campeggia sulla scena assolutamente nuda del Teatro greco aretuseo – insegue invece il segno opposto e trasforma una delle ultime tragedie euripidee in un complesso spettacolo di teatro rinascimentale con tanto di giganteschi fantocci animati, teriomorfi – letteralmente gli ex machina – reticolati antropomorfi, tableaux vivant in sospensione dalla gigantesca gru che le coreografie aeree di Mireia Romero Miralles accendono di meraviglioso e dissennato.
Su uno sfondo sonoro ritmico ossessivo, incalzante e oscuramente profetico (le musiche sono dello stesso Pedrissa), l’irrompere a Tebe dell’ambiguo Dioniso-Dionisa (la tradizione assegna al dio anche connotati androgini che Lucia Lavia interpreta più che appassionatamente) ha una triplice funzione: istituire il suo culto, vendicare la memoria della madre Semele – la cui maternità divina era stata schernita – e rivendicare la sua paternità divina in funzione di un riconoscimento anche politico. Sono proprio le donne tebane ad essere invase dal dio: «percorse dal pungolo della follia» e guidate proprio da Agave (Linda Gennari), madre di Penteo (Ivan Graziano), colui che regge la città: e allora il logos si fa lamentazione, canto stridulo e acuto e il loro sciamare letteralmente per la cavea è un momento davvero perturbante, una processione tellurica, primitiva (su cui si staglia dall’enorme manichino sospeso il parto del dio). Tamburi, percussioni, strepito di timpani, di flauti, di canti, vesti di pelli di cerbiatto e tirsi, segni di una Natura selvaggia e irriducibile. Si sfrenano le danze: c’è pure un (improbabile?) Dioniso-rap (di Domenico Lamparelli) – e Tiresia che canticchia Battiato – a suggellare la commistione pop in cui si dispiega il teatro urbano de La Fura dels Baus. Dioniso è un dio irato, livoroso, divinità enigmatica incarnata nello straniero che viene ad annunciarlo. Di contro, Penteo che tuona contro i «turpi rituali dionisiaci» che sporcano la sua città, rappresentante di un potere «regolare» e regolato che non ammette deroghe né un dio considerato «bastardo» ma il cui potere di eversione è incontrollabile. Penteo è la ratio, l’utilitas del culto opposto alla follia delle Menadi. Ma se lo scontro tutto niciano tra «apollineo» e «dionisiaco» è certo il tema centrale della tragedia, la regia di Padrissa pende quasi esclusivamente verso il femminino (pur presente in tutto Euripide) e la causa femminista – il corteo delle Baccanti è davvero una tranche de vie, una straordinaria «estetica urbana di attiviste femministe avvolte dal potere della musica, sguardo ecologico, fra leve, gru, funi e carrucole», correndo però il rischio di una deriva di spettacolarizzazione in un contesto dominato dagli estremi.
Insomma queste «Baccanti» sono opera modernamente ibrida e contaminata, che a tratti offre un indubbio fascino ipnotico ma che si concede troppi tempi morti e poca uniformità drammaturgica con la sua dispersione, con le sue agglutinazioni e gli appelli all’iperbole lì dove, per esempio, si innesta l’esuberanza del grumo dei corpi sospesi, dei prodigi, fino allo sparagmos – il sacrificio rituale delle Baccanti – nel quale il dio, in un finale quasi da Grand Guignol, innesca la sua raccapricciante punizione per Penteo: fatto a pezzi dalle mani della madre Agave. Il cui rinsavimento e la consapevolezza del suo orrendo sacrificio si compiono mentre l’epifania del dio, che ha abbandonato ormai i connotati umani, si dispiega con un lampeggiare sanguinolento su un «trionfo fatto solo di pianto» e nel quale Dioniso stesso, la cui crudeltà rimane spietatamente insondabile, diventa solo una terribile vox clamante, altissima e tremenda sul Citerione. Si replica a luglio (10/12/14/16/18/20/22/24/26/28/30) ed agosto (4/6/8/10/12/14/16/18/20).