Ma perché ogni volta che se ne va un artista, una figura pop, un’icona del genere nazional-popolare si diffonde una commozione così forte nel Paese? Nel caso di Raffarlla Carrà la ragione è abbastanza semplice: perché ci pone di fronte al nostro fallimento odierno. La Raffa nazionale, infatti, incarnava l’idea di una personalità leggera ma per nulla fatua, dolce, intensa, spensierata, poliedrica, colta ma senza mai scadere nella pesantezza, capace di entrare in punta di piedi, o per meglio dire ballando, talvolta anche in maniera sfrenata, nelle case degli italiani e di accompagnarci nel corso di mezzo secolo di inimitabile carriera artistica.
Raffaella Carrà ci è entrata dentro, ci ha preso per mano, ci ha sorriso con la sua gioia contagiosa, ci ha regalato spettacoli che riuscivano a divertire ma, al tempo stesso, a far riflettere, sempre con rispetto, in punta di piedi come detto, senza mai eccedere, senza mai scadere nella volgarità, arrivando addirittura a diventare un neologismo. “Carrambata”, difatti, è diventata ormai sinonimo di sorpresa, e rivedendo quell’Italia che correva verso il futuro, quell’Italia che, dopo le stragi di mafia e il collasso del sistema politico che aveva dominato per quarant’anni la scena, voleva guardare avanti, rivedendo quelle immagini ci assale la nostalgia, il rimpianto, la sofferenza per tutto ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Senza contare la Carrà degli esordi, quella del Tuca tuca, dell’amore da Trieste in giù, dell’ombelico scoperto in un servizio pubblico ancora profondamente bigotto, della rivoluzione sessuale e dei costumi, dell’affermazione dei figli del boom e del passaggio d’epoca nella stagione successiva a quella della rinascita.
Il varietà targato Raffaella era un’esplosione d’allegria, di irriverenza, di meraviglia ma anche di messaggi dirompenti, come la volta che ospite di “Carramba!” fu Diego Armando Maradona e assisteremo al riscatto dell’uomo, alla rivincita della persona offesa e sconfitta che tornava non più da eroe ma da comune mortale, con tutti i suoi difetti, la sua grandezza e i suoi vecchi compagni di squadra pronti ad abbracciarlo.
La sua televisione era per tutti, senza diffidenze, senza alcuna superbia, senza la spocchia tipica di una certa intellighenzia malata di autoreferenzialità. Raccontava storie belle, storie positive e ha continuato a farlo fino alla fine, realizzando interviste che ci facevano scoprire il volto più intimo di personaggi famosi che spesso, altrove, indossano una maschera. Ecco, con Raffaella era impossibile fingere perché la sua autenticità era disarmante.
Ci mancherà perché, con ogni probabilità, non avrà eredi, come non avrà eredi quel decennio, quell’Italia, quell’entusiasmo, quella speranza, quella gioia di vivere, che non era più dilagante come nel dopoguerra o negli anni Cinquanta e Sessanta ma comunque c’era e si percepiva ogni giorno. Oggi viviamo nel grigiore, nella pesantezza, nell’assurdo trasformato in normalità. Poi muore Raffa e ci rendiamo conto di quanto siamo diventati infelici.
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