La violenza sulle donne è invisibile nei tribunali italiani.
Cosi scrive la Commissione parlamentare sul femminicidio nella sua relazione.
Nei giorni scorsi è stato presentato il Rapporto sulla Violenza di genere e domestica nella Realtà Giudiziaria, ovvero l’analisi delle indagini e dei processi assumendo informazioni presso le procure della Repubblica ed i tribunali ordinari, i tribunali di sorveglianza, il Consiglio superiore della magistratura, la Scuola superiore della magistratura, il Consiglio nazionale forense e gli ordini degli psicologi.
Il rapporto, approvato nella seduta del 17 giugno 2021, è stato redatto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Femminicidio e sulle Violenze di genere e i dati sono desolanti, ma purtroppo ben noti e vieppiù denunciati da chi si occupa della materia.
Mancano i magistrati specializzati, si sottovaluta la formazione di magistrati, di avvocati, di consulenti e della polizia giudiziaria, e difetta il necessario dialogo fra ambito penale e civile, per cui nella maggior parte dei procedimenti civili le violenze ed i maltrattamenti vengono superficialmente qualificati come “conflitti familiari”.
Le Procure della Repubblica sono gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica per le funzioni di input inquirente attribuite loro dal sistema giuridico.
I PM, insieme ai loro organi di polizia giudiziaria, dovrebbero assicurare l’intervento efficace dello Stato nell’immediatezza della commissione dei reati e nel conseguente svolgimento delle attività di indagine.
Ma dall’analisi sugli esiti delle indagini emerge una situazione eufemisticamente definita “molto variegata tra i diversi uffici di procura”, poiché questi ultimi sembra si trovino “in stadi diversi di consapevolezza e azione” e, nel complesso, la loro comprensione della materia si rivela decisamente insufficiente.
È improcrastinabile quindi una “doppia strategia”: da un lato un percorso culturale che porti alla condivisione della complessità e della rilevanza emergenziale della materia; dall’altro, la “messa a punto di azioni e interventi strutturali, anche di tipo ordinamentale e regolamentare, che siano coerenti e adeguati”.
La rilevazione si riferisce al triennio 2016-2018 ed il tasso di risposta è stato pari al 98,6 % (138 procure su 140), ma su un totale di 2.045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare la materia specializzata della violenza di genere e domestica, è pari a 455, ovvero solo il 22% del totale.
Di questi PM assegnatari però molti sono incaricati anche di altre indagini rispetto alla materia della violenza di genere e domestica e parimenti molti di loro non hanno una adeguata formazione specialistica.
– Nel 10,1 % delle procure (14 su 138), tutte di provincia, non esistono magistrati specializzati nella materia della violenza contro le donne e questo implica che i procedimenti di questo tipo sono assegnati a tutti i magistrati indistintamente, senza una garanzia di adeguata preparazione nell’approccio investigativo alla materia.
– Nel 77,5 % (107 su 138) delle procure, invece, è stato costituito un gruppo di magistrati specializzati che tratta la materia della violenza di genere contro le donne, il più delle volte insieme ad altre materie riguardanti i cosiddetti « soggetti deboli o vulnerabili ».
– Solo una minoranza delle procure, pari al 12,3 % (ovvero 17 su 138, di cui 10 di piccole, 4 di medie e 3 di grandi dimensioni) segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente nella violenza di genere e domestica, ma soprattutto nelle piccole procure questi PM trattano anche procedimenti di altro tipo, fra cui reati contro il patrimonio e contro l’onore che nulla hanno a che fare con una materia così delicata ed emergenziale.
– Laddove ci sono PM che si occupano – con altre materie o anche esclusivamente – della violenza di genere e domestica, ovvero nel 90 % delle procure, ci si aspetterebbe che questi procedimenti vengano assegnati solo a magistrati specializzati, ma a quanto pare non è così. La formazione specifica dei magistrati al fine di una approccio adeguato alla materia non è assicurata e spesso si assiste ad una rivittimizzazione di chi denuncia, che non viene creduta oppure è considerata come “concausante” la condotta violenta subita.
Gli uffici giudiziari non hanno quindi una pretendibile consapevolezza della particolare complessità insita nella trattazione della violenza di genere e domestica, tanto che il 62 % dei procuratori dichiara di equipararla alle altre materie, soprattutto nella distribuzione dei carichi di lavoro tra i colleghi magistrati.
A questa grave sottovalutazione del problema, si collegano conseguenze inaccettabili in un sistema di tutela dei diritti: l’inadeguatezza e l’inefficienza della risposta giudiziaria, la non tempestività dell’intervento, l’aggravio e lo sbilanciamento del carico di lavoro a svantaggio dei magistrati specializzati, con il rischio concreto di un distacco istituzionale dalla materia ed un disincentivo a trattarla.
Altra criticità sono i cd. consulenti tecnici, figure professionali rappresentate, quasi sempre, dagli psicologi.
Questi ausiliari della magistratura hanno assunto una rilevanza sempre maggiore, con deleghe purtroppo non solo allo svolgimento di indagini specialistiche (accertamenti tecnici o perizie), ma anche a funzioni latu sensu giuridico – procedurali, ovvero alla raccolta discrezionale di informazioni da minorenni o da persone offese in condizione di particolare vulnerabilità, con diretti riflessi, e talvolta deleteri, sull’assunzione della prova dichiarativa (testimonianza) nel procedimento penale.
Vi è poi che la nomina di questi consulenti non avviene sempre sulla base della verifica di una effettiva specializzazione nella materia della violenza di genere e domestica ed il 25 % delle procure sceglie sempre e soltanto tra quelli iscritti all’albo dei periti del tribunale, nel quale non esiste una sezione o un elenco di esperti specializzati, né è prevista un controllo di competenze all’atto dell’iscrizione.
Ne consegue che l’illimitata discrezionalità valutativa concessa a questi consulenti inficia l’analisi strettamente giuridica dei fatti di reato, per cui tutta la vicenda processuale sovente si banalizza con relazioni apparenti, spesso inammissibilmente giudicanti la vittima, e superficialmente collegate alla temporanea condizione psicologica del soggetto che viene valutato.
Manca in definitiva l’adozione di quesiti standard per il conferimento degli incarichi ai consulenti nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni e questa scelta di politica giudiziaria si rivela invero non più rinviabile, sia perché sarebbe garanzia di omogeneità nell’azione dei tribunali, sia perché consente di assicurare, soprattutto in un settore così complesso, una corretta individuazione dell’oggetto dell’incarico e, quindi, di garantire il rispetto dei limiti invalicabili tra l’accertamento peritale e la funzione giurisdizionale riservata al magistrato.
Da una valutazione dei quesiti standard trasmessi (in totale 15 uffici) emerge che in più di un quarto di essi (4 su 15) si profilano aspetti problematici sul loro contenuto, “potendosi prospettare il possibile rischio di uno sconfinamento dal ruolo assegnato dalla legge alla consulenza tecnica a scapito del corretto esercizio della funzione giurisdizionale”.
Solo in casi marginali (10 su 25), negli uffici dove sono già previsti, i quesiti standard assegnati ai consulenti vengono elaborati con il contributo degli ordini professionali, nella maggior parte dei quali non esiste una commissione forense specializzata che operi da interlocutrice.
Sconcertante la svalutazione della figura dell’avvocato antiviolenza o comunque specializzato nel settore della tutela dei soggetti vulnerabili, senza tenere conto che queste figure, a differenza delle altre coinvolte, seguono corsi di formazione organizzati anche a livello internazionale dal CNF ( Progetto Trawaw sull’avvocato europeo antiviolenza oppure sull’avvocato del minore, con Save the Children) in partnership con l’ANM ed altri enti.
In molte procure, specie quelle di provincia nelle quali è sancito per iscritto che la “prassi dell’ufficio” non lo consente, è fatto persino divieto all’avvocato antiviolenza di stare accanto alla vittima quando questa viene esaminata dalla Polizia Giudiziaria su delega del Pm entro i tre giorni previsti dalla nuova disciplina del cd. Codice Rosso.
In definitiva solo il 12 % delle procure italiane (16 su 138) rivelano un’elevata attenzione alla materia della violenza di genere e domestica, che riesce a tradursi in un adeguato ed omogeneo intervento giudiziario tramite l’assegnazione della materia a magistrati specializzati. Va evidenziata la carente offerta formativa nella magistratura, per cui nel triennio 2016-2018 sono stati organizzati solo sei corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere e domestica, di cui due rivolti sia al settore civile che penale, e quattro esclusivamente al settore civile.
Permane un elevato numero di uffici che si connota per la « scarsa consapevolezza della specializzazione » e purtroppo comprende il 30 % delle procure (41 su 138) nella gestione delle quali prevalgono ritardi e l’accertato difetto della dovuta attenzione nelle indagini in materia.
Per quanto riguarda invece la fase dei processi veri e propri, 130 tribunali hanno risposto alla verifica su 140 e preoccupante è emerso il dato dell’importanza, soprattutto negli ultimi anni con l’espandersi della violenza domestica, che ha assunto il CTU, quasi sempre nominato dal giudice civile e quasi sempre uno psicologo.
Destano infatti perplessità le modalità con le quali il CTU è scelto ed il ruolo che nella realtà giudiziaria gli viene attribuito e che concretamente svolge, in particolare nelle cause di separazione giudiziale, di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di provvedimenti riguardo ai figli.
L’art. 61 del codice di procedura civile prevede che la consulenza tecnica di ufficio sia disposta quando il giudice ritiene necessario « farsi assistere per il compimento di singoli atti o per tutto il processo da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica » e, quanto al compito affidatogli, la normativa precisa che questi « compie le indagini che gli sono commesse dal giudice ».
Si ricorre alle CTU nelle cause caratterizzate da relazioni interpersonali familiari particolarmente complesse e conflittuali e nelle quali sono agite condotte di violenza, per cui è indispensabile conoscere chi siano i professionisti dotati di particolare competenza tecnica ai quali il giudice può ricorrere in questi casi, se e come viene valutata la loro competenza tecnica e specialistica, come si procede alla loro nomina, quale l’incarico conferito, nonché quale rilevanza assumano sulla decisione del giudice le conclusioni del CTU.
Vanno correttamente identificati, pertanto, i criteri con i quali il giudice individua il consulente da nominare e se la scelta avviene tra gli iscritti negli appositi albi istituiti presso ogni tribunale, deve assolutamente essere garantito che il CTU possieda non solo una professionalità generica adeguata, ma anche una specializzazione nella materia da trattare.
Altrettanto importanti sia il contenuto del quesito formulato dal giudice ed oggetto dell’incarico che le modalità attraverso le quali esso è elaborato e individuato, garantendo che sia stato condiviso tra i magistrati del medesimo ufficio e che sia il risultato di un confronto partecipato con gli stessi esperti o figure specializzate, poiché in caso contrario sussiste il verosimile rischio di una sottovalutazione della complessità della materia, specie se il giudice non possiede una specializzazione sufficiente nella materia della violenza di genere e domestica e rinvii quindi l’esito di una causa all’accertamento tecnico, così pregnante di significati e di conseguenze nella materia della famiglia e delle persone, soprattutto ove siano coinvolti soggetti minorenni.
Complessivamente, “l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure”.
Nei tribunali in definitiva la violenza di genere tende a non essere vista, a scomparire, con scarsissima applicazione di linee guida, di protocolli o di accordi di collaborazione nella materia della famiglia e della violenza di genere e domestica che regolino i rapporti tra i settori civile, penale e minorile e con un’offerta formativa carente per cui, oltre al sopra menzionato difetto di specializzazione della magistratura, viè che solo lo 0,4 per cento degli avvocati ha partecipato a eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, e manca, nella quasi totalità dei casi, la formazione specifica dei consulenti, in particolare degli psicologi, nell’ambito della violenza di genere e domestica.
Leggendo questa relazione finalmente si comprende perché la violenza in famiglia e sulle donne oggi in Italia è una vera e propria emergenza sociale.