Pestaggi “selettivi” in carcere dove i manganelli hanno colpito, ma non tutti i detenuti perché alcuni dei più pericolosi e camorristi sarebbero stati “risparmiati” e una caserma dei carabinieri in cui accadeva di tutto meno che il rispetto della legge e la tutela dei diritti. Interno giorno, anno 2021, Italia. Dove le “mele marce” sembrano essere qualcosa di più all’interno di un “cesto” in cui in troppi, a partire dalla politica, non vogliono mettere mano. Salvo, quando lo fanno, ragionare nel migliore dei casi con il classico “se la sono cercata” e “se erano lì” (il carcere o una caserma o commissariato) un motivo c’era. Piacenza, caserma Levante dei carabinieri. Santa Maria Capua Vetere, carcere. Le due vicende – la prima giunta al primo passo di verità quantomeno giudiziaria con la condanna dei carabinieri inquisiti a Piacenza, la seconda appena agli inizi dopo un anno di indagini – confermano tre cose.
LA PRIMA. Il carcere (o troppo spesso i commissariati o le caserme) rimane una zona franca delle nostre coscienze. Su quei portoni si fermano troppo spesso i diritti e i doveri e la nostra voglia di vedere: una volta entrato lì dentro sparisci come persona, ma non solo i detenuti, spesso spariscono come persone anche quelli che nelle carceri lavorano. Tace e rimuove la coscienza politica (non è un bel tema elettorale, piuttosto rende il richiedere pugno di ferro con la finta vocazione al recupero dei detenuti) e quella della società. È uno dei classici temi per i quali se non ci sbatti il muso perché un parente o un amico varca quei portoni la nostra “agenda” (non pelosa) sui diritti e sui doveri non ha molte pagine a disposizione. Un’agenda che spesso ha poco spazio anche nel mondo dell’informazione perché è difficile da seguire, scoprire, raccontare. Perché, inutile nasconderlo, c’è sempre qualche “capo” che predica cautela (sono pur sempre galeotti) e, comunque, la Carta di Milano …” si, vabbé, ma non mettiamoci a fare le anime candide sulle carceri”. I morti e le rivolte durante la pandemia sono passati via e solo a spot, per qualche inchiesta, i casi non hanno retto mai la parte alta dei titoli di un sito o la “prima” di un giornale cartaceo. Solo il lavoro di indagine de il Domani con Nello Trocchia, peraltro finito nel mirino di critiche feroci per la diffusione del video dei pestaggi, ha rotto il silenzio. Costringendo un po’ tutti a precipitarsi sul tema.
LA SECONDA. Come accaduto per la polizia di stato le riforme e il tentativo di una diversa formazione per gli agenti della polizia penitenziaria sembrano essere un lontano ricordo. Molti anni fa lo slogan era “non chiamateci secondini”. Brutto termine, è vero. Ma non è che scrivere agenti della polizia penitenziaria in molti casi abbia cambiato le cose. Le procedure di selezione e di formazione del personale in divisa con il quale non sempre i volontari e il personale civile delle carceri hanno rapporti molto felici, quali canali e quali contenuti seguono? Oggi (forse) dopo i casi di Santa Maria Capua Vetere anche gli indagati con e senza divisa che rivendicano le garanzie del diritto hanno capito (o capiranno?) che il “Nessuno tocchi Caino” non è un modo di dire, ma un principio fondamentale rispetto a chi, privato o meno della libertà, è nelle mani della giustizia e dello Stato. La realtà delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria è questa: chi vigila, quali contenuti caratterizzano la loro formazione. Certamente le generalizzazioni non fanno bene a nessuno ma quando un’intera struttura finisce sotto accusa come a SM Capua Vetere compresa la catena di comando o un nucleo di militari di una caserma come a Piacenza il problema non è più la mela marcia. È il sistema che è malato perché non è capace di prevenire.
LA TERZA. Alla quasi vigilia del ventennale dei fatti del G8 di Genova 2001 abbiamo riletto, ascoltato, nuovamente scritto e raccontato della violazione del diritto e dei diritti con un malcelato sottofondo di condivisione per il fastidio di dovere rispettare delle regole e, soprattutto, delle persone. Come venti anni fa la politica si è divisa ma con minori differenziazioni. Prima ha criticato il comunicato stampa (come hanno fatto molti avvocati) della Procura della Repubblica, poi ha in parte inveito contro chi pubblicando le immagini ha zittito ogni ipocrisia, per poi esprimersi. E quando lo ha fatto ha tradito qualche tentennamento perché parlare di “inaccettabili abusi” è un po’ una voce dal sen fuggita. Come dire, ci sono “abusi” tollerabili e altri no? In carcere non c’è stata qualche forzatura a fronte di una situazione di caos o di pericolo incombente. Venti anni dopo le immagini di SM Capua Vetere hanno riportato davanti ai nostri occhi i racconti dei fermati nella mattanza della scuola Diaz, umiliati, torturati (all’epoca non esisteva ancora il reato di tortura nel nostro ordinamento e la successiva definizione è stata un capolavoro che, nei fatti, rende difficile la sua applicazione). Molti fatti passare in mezzo a due “ali” di agenti (come nel carcere campano) e malmenati. Venti anni fa come oggi chi era detenuto o in attesa di accertamenti nemmeno di un processo, era ed è finito in un mondo parallelo senza regole. I 13 morti nelle rivolte in carcere del marzo 2020 nel penitenziario di Modena hanno rappresentato un fatto tragicamente unico nelle carceri d’Europa. Ma, onestamente, a chi importava in quei giorni e dopo? Spesso titolavamo che muoiono solo i vecchi, i camion militari portavano via le bare a Bergamo, non importava a nessuno. C’era un’emergenza con un nemico invisibile, il Covid. In parlamento l’allora ministro Bonafede liquidò la vicenda: sono morti per lo più di overdose. E, in parte, ce ne siamo un po’ tutti “stati”. Poi l’indagine di SM Capua Vetere, Nello Trocchia che è andato a vedere dietro al comunicato stampa e quelle immagini. A Genova Bolzaneto venti anni fa non c’erano immagini, venti anni dopo nel carcere campano sì. Con la conferma che qualche “problema” lo abbiamo. Purtroppo. Ed è meglio andare sempre a vedere cosa c’è dietro le versioni ufficiali.