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Le stragi del 1992 e la fiducia nello Stato

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‘Se voi non ci lasciate sognare, noi non vi lasceremo dormire’ – Anonimo

È la domanda cruciale che tormenta tutti coloro che – per diverse ragioni e a diverso titolo – si sono occupati di stragismo mafioso, in particolare degli eccidi di via d’Amelio in cui morì Paolo Borsellino e di quello (preannunciato dall’attentato dell’Addaura) di Giovanni Falcone e delle rispettive scorte. Sono magistrati, giuristi, avvocati, familiari delle vittime, politici, giornalisti, professori e scrittori, testimoni, pentiti e prelati, perfino criminali omicidi incalliti. L’interrogativo che prima o poi si affaccia per ognuno è: occorre avere fiducia nello Stato. Sì, ma come si fa?

Le risposte plausibili sono svariate. Una prudenziale, ad esempio, e molto utilizzata è: perché in attesa delle risultanze di processi molto lunghi appare più giusto e opportuno non formulare alcun giudizio o parere. In altri termini serve pazienza senza saltare alle conclusioni. Servirebbe anche più coraggio, però -come per Don Abbondio- quello si ha oppure nessuno se lo può dare da solo. Evidentemente neanche dopo motivazioni di sentenze di 5000 pagine, come quella della Trattativa Stato-mafia che adesso sembra molto meno presunta. Talvolta è un atteggiamento di rassegnazione a contare, tanto che altro si può fare? O anche la pura e semplice logica: non si può certo avere fiducia negli assassini. Tra bene e male la decisione è piuttosto facile; tra bene e non bene è già più articolata. Perché bisogna avere fiducia nello Stato suona invece più come un imperativo categorico che come una risposta: un atto fideistico o un’adesione ingenua, direbbe il Candide di Voltaire (e probabilmente lo è). Per quanto resti in ogni circostanza la motivazione migliore.

‘Se voi non ci lasciate sognare, noi non vi lasceremo dormire’. La frase, scritta su un muro di Madrid, è stata citata da Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, nell’incontro sul tema della ricerca dei mandanti esterni, organizzato a Villa Trabia a Palermo da AntimafiaDuemila, in memoria dei 29 anni della strage di via Mariano d’Amelio. “Un capitolo della storia della lotta del potere in Italia – l’ha definita Scarpinato – una cartina tornasole del reale funzionamento del potere in Italia; il segreto il ritratto di Dorian Grey e del volto feroce di alcuni settori della classe dirigente, che la lotta del potere non l’hanno condotta solo con mezzi legali, ma anche con stragi e omicidi”. Ma, ha aggiunto poi, “non dobbiamo cedere allo sconforto perché Borsellino non arretrò”.

“Da trent’anni aspetto giustizia e verità e da trent’anni giustizia e verità puntualmente non arrivano. Ogni 19 luglio arrivano nuove notizie di depistaggi, nuovi veleni, nuove minacce. Sono stanco di parole, ho deciso di compiere delle azioni simboliche”. Ad affermarlo è Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, attivista e fondatore del Movimento Agende Rosse. Sembra fargli eco, parlando delle stragi del ’92, Luca Tescaroli procuratore aggiunto del tribunale di Firenze: “È giusto dire che, nonostante tutto, lo Stato ha saputo reagire; lo Stato c’è ed è importante perché alimenta e deve alimentare la fiducia da parte dei cittadini verso chi opera e chi è impegnato nella ricerca continua della verità, che non è mai venuta meno. Esistono sufficienti elementi rivelatori di presenze esterne nell’ideazione e nella esecuzione di questi attentati, che hanno fortemente condizionato lo statuto democratico del Paese”.

Occorre fiducia nello Stato e bisogna averla anche quando lo Stato – che siamo sempre noi, come ricorda Piero Calamandrei – non si è comportato in modo esemplare. Quando perfino alcuni presidenti della Repubblica, il più alto grado della rappresentanza, non hanno fatto benissimo e neppure bene (e ne vengono in mente almeno un paio, se non tre, pensando al passato), quando i servizi segreti si sono piegati ad altre esigenze che non quelle della professione e lo stesso vale per le forze dell’ordine (carabinieri e poliziotti), magare con l’alibi della ‘ragione di Stato’ come nel caso dei presidenti – parafrasando Pascal, lo Stato avrebbe delle ragioni che la ragione non conosce – o dell’obbedienza necessaria per le divise. Era la giustificazione avanzata dai militari nazisti per lo sterminio, dovevano eseguire gli ordini. Quando, infine, le cose sono andate come quasi nessuno voleva che andassero, ma come pochi, pochissimi, volevano assolutamente.

È lo stesso Paolo Borsellino a suggerirci queste riflessioni in un audio inedito del 1989, in cui è contenuto un suo intervento a un convegno tenuto nel municipio di Palermo, nella Sala delle Lapidi, che di recente è stato ritrovato in maniera fortuita in un cassetto dell’Istituto siciliano di studi politici ed economici, l’Isspe. “La via obbligata per la rimozione delle cause che costituiscono la forza di Cosa nostra – afferma nella registrazione il magistrato – passa attraverso la restituzione della fiducia nella pubblica amministrazione”. Ossia il buon governo, la buona politica, le buone prassi.

Se tutto è buono, i cattivi allora dove trovano spazio? Magari nelle minacce di morte fatte a Nino Di Matteo, ex pm del processo Trattativa ora consigliere del Csm e componente (reintegrato) del pool della Procura Nazionale Antimafia che indaga sulle stragi. Il boss della ‘ndrangheta Gregorio Bellocco, detenuto nel carcere di Opera a Milano, commentando la scarcerazione di Giovanni Brusca ha detto: “Il giudice Di Matteo lo ammazzano, gli hanno già dato la sentenza”. Di Matteo non è stato lasciato solo, come è accaduto ad altri prima di lui: dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Il Capo dello Stato Sergio Mattarella è intervenuto per esprimere vicinanza al magistrato palermitano e lo ha fatto per il tramite di David Ermini, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. In precedenza 70 magistrati avevano sollecitato Presidente e Csm in un documento in cui si spiega che “la presa di posizione degli organi apicali dello Stato può costituire un deterrente rispetto alla possibile commissione di gravi delitti a danno di donne e uomini delle istituzioni”.

La fiducia nello Stato va alimentata con continuità, rafforzata senza sosta, non solo a parole – di quelle ce ne sono quante se ne vuole, specie nelle occasioni ufficiali – ma soprattutto attraverso gli atti. Di questo c’è bisogno, in ogni tempo e tanto più nel nostro così complesso e frammentato. Le statue di Falcone e Borsellino collocate in via Libertà a Palermo sono state sfregiate da sconosciuti nei giorni della memoria, un gesto vile di odio. Anche lo Stato, composto da noi cittadini, deve meritare la fiducia, esserne degno, cosa non poi così scontata, specie quando si discute di depistaggi, poteri occulti, anti Stato, collusioni inammissibili. “Fiducia nello Stato – prosegue Borsellino nell’audio – significa anche fiducia in un’efficiente amministrazione della giustizia sia penale, sia soprattutto civile”. E qui il pensiero corre alla discussa riforma della giustizia proposta dalla ministra Marta Cartabia e alla possibili ricadute che avrebbe nella lotta per il contrasto alla mafia.

Questo concetto della fiducia rende conto anche di un’altra questione decisiva sul perché esista ancora Cosa nostra in Italia dopo quasi due secoli. Il motivo è lo stesso: ancora oggi, in epoca di pandemia con tutte le conseguenze di instabilità, disoccupazione e indigenza che essa comporta, qualcuno sceglie la mafia (e la camorra e l’ndrangheta) e non lo Stato come ‘via breve’ per la risoluzione dei propri problemi o la salvaguardia delle proprie inconfessabili ambizioni. Mentre invece è nota a tutti, per quanto assai meno applicata e praticata, la proporzione virtuosa “più Stato, meno mafia”. Da Falcone e Borsellino la lezione che ci arriva in maniera forte e chiara dopo un trentennio è propria questa: serve credere nella parte migliore delle istituzioni e della rappresentanza. Mentre allo Stato – per la sua stessa sussistenza – occorre la nostra fiducia. E chi gliela nega è perduto.

Fonte: Micromega


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