Tra il 10 e il 12 giugno del 1981 la vita di un bambino di 6 anni si spense in modo atroce in un pozzo strettissimo nelle campagne alla periferia di Roma e dal punto di vista della comunicazione e del costume sociale cambiò un’era. Nel ricordo di tre generazioni c’è un prima e un dopo Vermicino. C’è, ancora più eclatante, nella storia della televisione italiana e più in generale dei media. Articolo 21 lo fa raccontare ad uno dei principali testimoni, il giornalista che più a lungo restò intorno al maledetto pozzo di Vermicino, Piero Badaloni.
Testimoni del tempo ce ne sono tanti, qualcuno purtroppo se ne è andato. Su quella diretta, che resta la più lunga della storia televisiva italiana e che fu fatta ovviamente dalla Rai, con una telecamera, molti tecnici e giornalisti dei tre telegiornali e gli studi di Via Teulada sempre aperti giorno e notte, si può e si deve sviluppare oggi un ragionamento sul modo di raccontare, o spettacolizzare, o infrangere ogni regola etica di quella che fino ad allora nessuno aveva chiamato TV del dolore.
Già, e questo è stato fatto. Ma non dalla protagonista assoluta del tempo, la Rai, ma dalla TV La Sette con una trasmissione interessantissima di Andrea Purgatori (c’era anche lui a Vermicino). E anche una fiction è stata fatta per raccontare soprattutto il dopo la tragedia e la storia della famiglia Rampi, ma neanche questa dalla Rai, ma da Sky.
Tutto questo non è normale. Non ci si attacchi al fatto che su molte ore di diretta di quei giorni è stato posto dalla famiglia Rampi il diritto all’oblio: nessuno ha mai fatto risentire la voce di Alfredo e i colloqui con la madre, nessuno avrebbe violato il rispetto di questa sfortunata famiglia. Ma la Rai ha una molteplicità di immagini e di materiale del tutto libero da vincoli che avrebbe potuto utilizzare non come semplici inserti nei telegiornali ma proprio come approfondimento e come focus sulla comunicazione, sui limiti che allora come oggi dovrebbe forse porsi, sui confronti con il racconto del Covid all’inizio, quando regnava la confusione e si rincorrevano notizie false e provocazioni e non si capiva cosa stesse accadendo. Noi giornalisti dobbiamo immergerci in queste dolorose riflessioni se vogliamo tornare ad avere quella riconoscibile autorevolezza che ci faccia comunque distinguere dal tribunale permanente e anonimo dei social, che oggi rimprovererebbero a Franca Rampi anche di aver mangiato un gelato durante quelle oltre 48 ore di inferno.
E che sia la Rai, il servizio pubblico, la protagonista di quell’evento, a rifuggire dal ragionamento, dall’approfondimento, dal dibattito, dall’analisi degli errori e dei meriti di ieri e di oggi è desolante e perfino doloroso per tutti quelli che hanno dato anni e anni di vita di lavoro a quell’azienda rispettando il solo comandamento di rispondere all’interesse dell’utente, perché utente si chiama quello di un servizio pubblico.
Continuando a svendere i patrimoni di immagini per far fare docufiction alla concorrenza la Rai sta lentamente diminuendo il valore, uno dei pochi, che gli è rimasto: quello degli archivi. La storia d’Italia dal 1954 al 1991 l’ha raccontata e spiegata solo la Rai e quel patrimonio almeno era e resta unico: ma se non sappiamo usarlo o, peggio, lo cediamo senza problemi al miglior offerente, allora l’azienda è messa veramente male. E fa un torto gravissimo ai cittadini che da sempre pagano il canone.