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Un grido contro le élite. ‘120 battiti al minuto’ di Robin Campillo

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Cercare di dare un’identità a una malattia di cui si sapeva poco come l’Aids è stato uno degli obiettivi dell’organizzazione internazionale Act Up nei suoi primi anni di vita. Anche nella Francia degli anni ’90, le varie iniziative miravano a sensibilizzare la popolazione sulla strage silente che il virus Hiv stava compiendo.

Quello che ti arriva sotto la pelle è la concitazione rabbiosa, l’urgenza e la tensione di azioni dettate da dieci anni di morte – amici e amanti scomparsi nel giro di pochi mesi – e dall’inerzia degli organismi sanitari e delle multinazionali del farmaco. La narrazione ufficiale e fuorviante diffusa dai media e dalla politica parla di un morbo che colpisce soltanto fasce marginali e sacrificabili della popolazione: omosessuali, tossici, sex workers, quindi perché impegnare tempo e denaro nella ricerca di farmaci e vaccini? Tanto i cittadini ‘normali’ non possono contrarre l’Hiv, e tanto meno i rispettabili bourgeois.

È in questo clima che il movimento Act Up riesce a coagulare la comunità gay, a riunirla in assemblee di cui la mdp riproduce i movimenti ansiogeni saltando, in una simulazione di presa diretta, da un volto all’altro, da un attivista all’altro, mentre gli interventi si rincorrono. Forse per la prima volta gli omosessuali si organizzano in un’associazione a carattere politico, un organismo capace di reagire e colpire con espedienti di forte impatto emotivo, a volte urticanti, l’indifferenza e l’ostilità di tutti, a partire dal comune cittadino, e a spegnere i sorrisi di sufficienza che accolgono le loro rivendicazioni.

120 battiti al minuto propone le immagini vivide, colme di pathos, degli episodi corali che costituivano il tratto distintivo di quel periodo. Ad esempio, ci troviamo a rivivere le proteste degli attivisti caratterizzate da gesti eclatanti come l’uso di sangue finto – il sangue era temuto in quanto fonte primaria di contagio, quindi una traccia in grado di scuotere le coscienze e reclamare il diritto all’esistenza da parte dei malati di Aids. Il fervore sociale e politico di Act Up si alterna a sequenze di totale abbandono ai momenti di evasione in discoteca con balli frenetici, a tratti psichedelici, quasi un modo per esorcizzare i mali causati da una società ottusa e arroccata su moralismi privi di senso.

La luce del giorno, che è la cornice in cui si svolgono le manifestazioni dell’associazione, contrasta col cono d’ombra della vicenda esistenziale di Sean, giovane attivista sieropositivo che combatte da anni contro l’Aids. La vicenda di Sean si muove parallela alla storia collettiva, perché il ragazzo da un lato lotta con tenacia e orgoglio come attivista di Act Up per porre rimedio all’ignoranza della popolazione, e dall’altro è costretto a fronteggiare ogni giorno l’avanzata drammatica di una malattia che non ha ancora cure in grado di arrestarne il decorso. Proprio la vitalità di Sean affascina Nathan, nuovo membro dell’associazione e fra i pochi ad aver evitato il contagio. Tra i due nasce una relazione appassionata e talmente profonda da spingere Nathan ad accompagnare Sean sino alla fine dei suoi giorni.

È il contrasto fra sentimenti opposti il tema più efficace della pellicola, ciò che dà tensione alla trama. In 120 battiti c’è spazio per la rabbia e l’amore: la prima verso una società priva di sbocchi evolutivi, il secondo verso il prossimo. La speranza in un ‘dolce domani’ si oppone al dolore provocato da una malattia che non smette di uccidere.

La morte per i membri di Act up assume la forma di un manifesto politico – come del resto anche la morte di Sean, per sua volontà. Un grido che pretende di essere ascoltato dalle élite chiuse nei salotti patinati, a distanza di sicurezza dalla disperazione che corrode il mondo, per la quale fingono da attori consumati un interesse di circostanza. Quei salotti in cui gli attivisti irrompono con la violenza della vita reale, e del dolore, spargendo ovunque le ceneri di Sean e ripetendo come un mantra la sua richiesta di aiuto.

L’impellente esigenza di porre fine allo scempio e di dare risposta a chi necessita di cure trovano una rappresentazione efficace sullo schermo grazie alle sequenze che si sviluppano in maniera frenetica. Il dinamismo si riflette anche nelle immagini di Parigi, teatro delle azioni di Act up, i cui scorci si affastellano nel veloce scorrere della metro sui binari.

La vitalità del movimento Act Up diventerà un vero e proprio volano per le lotte LGBTQIA dell’epoca, traghettando la Francia verso nuove conquiste in materia di diritti civili come la PACS del ’99 (una legge analoga in Italia è stata approvata solo nel 2016, mentre oltralpe tre anni prima era stato introdotto il matrimonio egualitario).

La lotta per i diritti civili appare purtroppo ancora lunga, non solo per conquistarli ma anche per preservarli da possibili rigurgiti codini, come abbiamo visto accadere anche in alcuni Paesi europei con l’appoggio determinante della Chiesa cattolica. Per fare un esempio, nel settembre 2015, Amnesty International ha concluso che “la comunità LGBTI in Polonia deve affrontare una discriminazione diffusa e radicata in tutto il paese” e che “il sistema giuridico polacco è pericolosamente approssimativo quando si tratta di proteggere le persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (LGBTI) e altri gruppi minoritari dai crimini d’odio”.

Quei crimini d’odio che verrebbero perseguiti dal ddl Zan attualmente in discussione nel Parlamento italiano, un disegno di legge che prevede la tutela contro le discriminazioni nei confronti di omosessuali, transessuali, donne e disabili in un Paese dove l’inclusività è il più delle volte una bandiera da agitare a seconda delle occasioni e degli umori.


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