Il 25 maggio Asad Ali Toor è stato aggredito da tre uomini in borghese, poi qualificatisi come agenti dei servizi segreti, che avevano fatto irruzione nel suo appartamento di Islamabad. Lo hanno legato e picchiato, poi gli hanno chiesto di rivelare da dove venissero i suoi finanziamenti, infine se ne sono andati portando con sé i suoi strumenti di lavoro: computer e telefono cellulare.
Toor è un giornalista del Pakistan. Nel settembre 2020 era stato incriminato per aver fatto “commenti diffamatori nei confronti delle istituzioni dello stato”. L’inchiesta era stata archiviata.
Anche se fosse stato un caso isolato, sarebbe stato comunque grave. Ma quello contro Toor è l’ennesimo episodio di una caccia al giornalista in corso da tempo in Pakistan.
Il 20 aprile, sempre a Islamabad, il giornalista televisivo Absar Alam, è stato ferito da colpi d’arma da fuoco appena uscito dalla sua abitazione. Anche lui, nel settembre 2020, era stato accusato di sedizione e alto tradimento per i contenuti di alcuni post che aveva pubblicato sui suoi profili social. E anche in quel caso, non se n’era fatto nulla.
È come se, di fronte alle inchieste giudiziarie contro i giornalisti che non vanno avanti, qualcuno rimasto scontento stia cercando di applicare la giustizia fai-da-te.
Sull’aggressione a Toor il governo ha annunciato l’apertura di un’inchiesta.
Nel frattempo il canale all-news “Geo” ha sospeso il giornalista Hamid Mir, uno dei più famosi conduttori televisivi del Pakistan, “colpevole” di aver preso la parola durante una manifestazione di solidarietà con Toor.