Il ricordo delle bambole e degli animali intagliati nella carta blu della pasta volteggia nella testa della protagonista e apre la strada al viaggio nella memoria, allo sforzo di sbrogliare la matassa della propria storia personale, del mistero dell’origine. A quindici anni dalla morte della madre, dopo gli anni del dispiacere, si apre il sigillo gioioso del ricordo, Eleonora sa di aver bisogno della parola della madre e la madre glielo aveva promesso: “Se c’è qualcosa nell’al di là, tu mi verrai a trovare, io ti riconoscerò”. E la trama delle parole scambiate viene ripercorsa. Un legame forte e ambivalente quello tra la protagonista Eleonora e la madre Bruna, un lutto che ha richiesto una complessa elaborazione e che l’autrice ci restituisce in una trama aggrovigliata al di là di un ordine cronologico. Diversi sono i piani temporali: la ricostruzione di Eleonora, i suoi ricordi d’ infanzia e i ricordi d’ infanzia della madre Bruna, stralci dei diari di Bruna, il corpo a corpo di una vita tra madre e figlia, la genealogia familiare, la vicenda della malattia e della morte di Bruna. Tutto ciò ci dà conto di un lungo lavorio dell’autrice per un libro probabilmente frutto di una riflessione durata molto tempo “una cronaca familiare tramandata dalla scrittura” – avverte Nadia Tarantini nella nota finale – in cui “ nulla di ciò che ho raccontato è avvenuto nella realtà come l’avete letto”, ma a cui ha prestato in qualche modo il suo vissuto personale.
Cristina Faccincani Gorrieri scrive in “Paradossi del materno” ( Diotima, L’ombra della madre, Liquori, 2007) di aver osservato nella sua esperienza di lavoro clinico con le donne in analisi che uno dei paradossi più ingombranti e difficili nel rapporto madre e figlia è la dimensione trigenerazionale (nonna – madre- figlia n.d.r) del problema della funzione materna, funzione che nella sua componente interiorizzata comporta l’accettazione e l’accoglienza di sé. “Di conseguenza accade che nell’analisi occorre avventurarsi a ritroso nei territori emotivi della relazione fra la madre e la madre della madre (la nonna) per rintracciare il senso di tutto ciò che la figlia si ritrova a incarnare, sia come eredità vivente di quella relazione, sia come vincolo alla riparazione delle falle di quella relazione, ciò che paradossalmente la pone in posizione di madre della propria madre”. A questa rielaborazione accedono in qualche modo Elena e Bruna nella relazione e nei dialoghi del lungo periodo della malattia di Bruna. Emerge la figura di Bruna, donna bellissima oggetto dell’ammirazione di sguardi maschili, quella che sa far ridere le amiche e sa trovare una soluzione a tutto, nata con un sole oscurato che lei ha saputo rendere splendente con la fantasia. Bruna e il rapporto conflittuale con la madre, la nonna Elena di Eleonora; Bruna dal carattere indomito, un atteggiamento di sfida, di ribellione fin da piccola per desiderio di amore e senso di solitudine, condannata ad essere sempre coraggiosa, quella che se la cava in ogni situazione, perché questo gli altri si aspettano da lei. “Tu sei capace di sfidare il Padreterno” le dice anche la figlia Eleonora , ma Bruna ha avuto le sue fragilità come quando incinta si chiedeva “come farò ad essere madre – che ancora non ho imparato ad essere figlia” e quando germoglia in lei la radice dell’attaccamento alla figlia, sente nel suo ventre che sarà una bambina e il suo corpo si ribella alla separazione “ No, non la farò andare. La terrò sempre vicino a me”. Il lavorio di ricerca e di elaborazione percorre tutta la vita di Bruna, nei suoi diari, che Eleonora erediterà, nel quaderno azzurro, diario della malattia, nel continuo far rivivere i ricordi di una vita nel dialogo con i figli e soprattutto con Eleonora. “C’ è sempre qualcosa che ti trattiene” le aveva detto la madre trent’anni prima poco prima di morire e anche adesso che è lei vicina alla morte Bruna sente che c’è sempre qualcosa che la trattiene in vita. La curiosità di vedere come andrà a finire, la paura della putrefazione della morte, l’illusione e il desiderio di essere risarcita anche adesso, prima che la vita si interrompa, l’illusione di pervenire a una visione della sua vita, la speranza di avere pace. Ciò che più di tutto la trattiene in vita è proprio quello “Scavare nei ricordi per trovare la verità, raccontarla ai figli. Forse qualcuno un giorno potrà scriverla. Non andrà perduta”.
In contrappunto allo scavo e al lavorio della memoria di Bruna c’è quello di Eleonora che prende vita nel dialogo e nello scambio con la madre nei mesi della malattia. Ricordi minuti, flash, come su un tessuto sottile di trina si disegna l’attaccamento di Eleonora alla madre che prende forma ancora una volta nei gesti di sfida di Eleonora bambina già a due anni “Non te la do la cacca”; la gelosia per gli sguardi degli uomini sulla madre, la gelosia per l’intimità dei genitori, la gelosia per i fratelli – i tre volti della madre, come la luna, uno per ciascuno dei figli – il suo consapevole proposito di conquista della madre quando è ancora poco meno che adolescente. Molti e indelebili i momenti di vita su cui ritorna Eleonora, anche lei forte e ribelle. Rievoca il rapporto con le nonne, le zie, l’amore speciale del padre, la sua morte precoce, le sciagure familiari come l’incendio della segheria di famiglia. I racconti risalgono ai bisnonni, agli zii, amori e morti misteriose, segreti non svelati, misteri che non si possono più sciogliere, ma su cui Eleonora continua a riflettere e cercare interpretazioni, perché gli eventi e le storie di famiglia sono – come per ciascuno di noi – ciò che ci è stato dato, che abbiamo conosciuto innanzitutto della vita e su di essi si è modellato l’immaginario , esercitato il giudizio. Palcoscenico di tutto ciò sono la casa di famiglia, il bosco, la segheria, i monti, gli echi delle strade di paese di un Abruzzo aspro di quando d’ inverno nevicava ancora.
La terza caduta della madre risulterà fatale, ma intanto Eleonora ha potuto dirle: “Ci siamo amate noi due” e Bruna: “Non lo dire a nessuno. E’ un segreto”. Adesso hanno “imparato a sfiorare i sentimenti più profondi, appagate dai gesti. Senza le parole, la competizione sembra cessare, lasciare spazio ad altro” . Forse la madre ora ha meno paura di andarsene prima di averle insegnato come si vive , ma non senza rivolgerle con voce piccola la domanda che Eleonora non potrà ignorare: “Scriverai? Scriverai anche di
me ?”. Domanda che con la irrinunciabile baldanza di Bruna diventa poco dopo in una conversazione con un’amica: “Lo sai? (Eleonora) sta scrivendo un libro su di me … Sulla mia vita”. E’ il dono di quella scrittura che Bruna aveva praticato tutta la vita nei suoi diari, che Nadia Tarantini ha praticato per molti anni in forme diverse nella sua attività di giornalista, docente universitaria, pubblicando una decina di libri di vario genere e giungendo nel 2017 alla pubblicazione del primo romanzo “Quando nascesti tu stella lucente” e nel 2020 di “Amore inquieto”.
“La scrittura, ne sono convinta, ce la danno le madri … Amore inquieto è il consapevole riconoscimento a mia madre e alla scrittura che mi ha trasmesso” scrive nella nota finale del romanzo.
Eleonora non riuscirà a mantenere la promessa di stare vicino alla madre durante il trapasso e non riuscirà ad occuparsi materialmente del suo corpo dopo la morte: nella morte ha sentito per la prima volta il limite da cui è venuta. Ma l’immagine di Bruna vestita in tutti i toni del rosso resta nella nostra memoria e trionfa nel ritratto che ne fa l’autrice alla fine del libro quando prima di addormentarsi la sera Bruna fa scorrere febbrilmente le immagini del giorno dopo e “ Cerca l’incontro, il cibo, il pensiero buono che la farà ricominciare”.
Nadia Tarantini, Amore inquieto, Iacobelli, 2019