#Ripartiamoinsieme dopo la pandemia, il buio, la “reclusione” nelle nostre case. E sembrava vero. Invece la “Repubblica fondata sul lavoro” sta scoprendo in questi giorni che, probabilmente, il “credo” del lavoro lo ha tradito. Sta contando morti ogni giorno e non sono solo più quelli, moltissimi, troppi, che restano schiacciati dalle presse, inghiottiti da macchinari, annegati nelle vasche di decantazione, sono braccianti il cui cuore si ferma per la fatica e il caldo, autisti travolti perché stanno manifestando il loro disagio unito alle difficoltà economiche. Prima di Camara Famandi, morto di stanchezza a Brindisi, era accaduta la stessa cosa ad Adriano Urso, il musicista jazz colpito da infarto mentre consegnava cibo a domicilio. Sono morti sul lavoro? No, sono morti per mancanza dei diritti sul lavoro. Camara, Adriano, Adil erano persone che prestavano servizi pagati male, senza ferie né permessi, né assicurazioni per la malattia, né orari, né paga base, né tutele in caso di licenziamenti. E tutti e tre sono esistiti per assicurare cibo fresco e a basso costo alle nostre vite. La filiera del cibo in Italia si sta rivelando la più grande catena di sfruttamento umano che sia mai esistita, basata su migliaia di figure professionali precise, in gamba, generose eppure tanto disperate poiché sanno che il loro mondo non esiste per gli altri, l’assenza di diritti minimi non viene percepita come un problema. Ogni giorno centinaia di migliaia di braccianti raccolgono tonnellate di frutta e ortaggi in tutta Italia dall’alba al tramonto senza fermarsi mai e a fine giornata vengono retribuiti con (al massimo) tre euro l’ora; quella frutta viene caricata su centinaia di camion controllati (in maggioranza) dalle tre grandi organizzazioni criminali del Paese, che impongono il prezzo di trasporto e poi quello di consegna nei mercati all’ingrosso, anch’essi controllati, come ampiamente provato da molte inchieste, da un cartello compartecipato da ndrangheta, camorra e soprattutto mafia. Poi c’è lo stoccaggio nelle piattaforme che approvvigioneranno la grande distribuzione e anche lì vige la legge del più forte, o del più temuto e in Italia i più temuti sono sempre gli stessi. Il costo del lavoro è una voce che deve essere sempre più bassa per garantire profitti. E siccome c’è una domanda amplissima esiste un “sobborgo” dell’economia italiana dove le cooperative di facchini si fanno una guerra spietata. Da quando sono iniziate le riaperture post pandemia si è disvelata in tutta la sua gravità la drammatica condizione dei lavoratori che assicurano servizi e prodotti essenziali, quelli cui noi altri non abbiamo mai rinunciato. Nel mese di giugno la cosiddetta “ripartenza” è stata caratterizzata da scioperi, proteste, sit in in. E lavoratori morti. Sabato 26 giugno Cgil, Cisl e Uil sono scesi in piazza con una staffetta che ha toccato Torino, Firenze e Bari per chiedere la proroga del blocco dei licenziamenti applicato durante tutta la pandemia proprio per evitare di alimentare ulteriori sacche di povertà. Il caso dei grandi gruppi della logistica sta dimostrando che alcuni licenziamenti sono finalizzati a sostituire il lavoro dipendente con quello a collaborazione o per esternalizzare a cooperative che applicano contratti da far west. L’attuale congelamento della possibilità di licenziare scade il 30 giugno e dopo le manifestazioni di piazza va avanti l’ipotesi che si possa proseguire con un blocco selettivo delle aziende in crisi. Tuttavia non è questo esattamente il punto che può incidere sulla condizione del lavoro in Italia poiché questo blocco non inciderà sulle vite delle migliaia di persone che mandano avanti interi settori senza alcuna garanzia di sicurezza, senza diritti e le cui storie svaniscono dopo l’indignazione di un giorno, quello dei funerali.
(Uno dei cortei di protesta di sabato 26 giugno – Foto Corriere.it)