Con la Risoluzione n. 181, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU, iniziò il 29 novembre del 1947 l’iter che portò alla costituzione di Israele come Stato. Al costituendo Stato fu assegnato il 56% della “Palestina mandataria” e il 44% al futuro Stato di Palestina. La ripartizione non rispecchiava le proporzioni della presenza sul territorio di ebrei (20%) in quanto Israele era destinato ad accogliere gli ebrei desiderosi di una patria dopo l’incubo della Shoa.
Il mandato alla Gran Bretagna di amministrare la Palestina scadeva il 15 maggio del 1948 e il giorno prima, «vigilia di sabato 5 Iyar 5708, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv», il Consiglio di Stato provvisorio del costituendo Stato firmò la Dichiarazione della Fondazione di Israele. Esordisce così: «In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali con portata nazionale e universale e ha dato al mondo l’eterno Libro dei Libri». Ricordato che il primo congresso sionista aveva «proclamato il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale del suo Paese» – diritto «riconosciuto nella dichiarazione Balfour il 2 novembre 1917», inserito nel Mandato della Società delle Nazioni e riconosciuto dalle Nazioni Unite – dichiara «la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d’Israele» e «sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite».
Gli auspici dei “padri fondatori” furono smentiti immediatamente. Quando Ben Gurion proclamò, lo stesso 14 maggio, la nascita dello Stato di Israele, già da alcuni giorni bande armate avevano avviato l’operazione che avrebbe portato alla distruzione di 400 fra città e villaggi palestinesi e all’esodo forzato di circo 700.000 palestinesi. È quella descritta dallo storico israeliano Ilan Pappe nel suo libro La pulizia etnica, che con modalità diversa è proseguita sino a oggi.
Non a torto i palestinesi ogni anno da allora ricordano il 15 maggio come la Nakba, ovvero la catastrofe.
Ma come è avvenuto questo capovolgimento di prospettiva che ha dato luogo alla “guerra infinita” che dura da 73 anni e non accenna a finire?
I fattori sono diversi e intricati. I principali mi sembrano tre: le degenerazioni delle religioni in fondamentalismi e poi in fanatismi sino ad animare il terrorismo; l’esasperazione dei nazionalismi; l’imperialismo. Partiamo dall’ultimo, determinante per la nascita e la sopravvivenza di Israele, ma marginale per la sua involuzione.
Il legame dell’imperialismo occidentale con Israele nasce con la Dichiarazione di Balfour, è proseguito con il mandato conferito dall’ONU alla Gran Bretagna (v. Adista Segni Nuovi n. 21) e si è rafforzato con la crisi di Suez del 1956 quando, all’annuncio di Nasser della nazionalizzazione del Canale di Suez, le forze armate israeliane immediatamente invasero l’Egitto e fu guerra. L’Inghilterra e la Francia inviarono nell’area le proprie navi da guerra con truppe terrestri a bordo, con l’obiettivo di consolidare le proprie posizioni di potenze imperialiste intervenendo per far cessare i combattimenti e ripristinando la situazione quo ante. Ma le cose andarono diversamente. L’Unione Sovietica (altra potenza imperialista) alzò forte e minacciosa la propria voce e intervennero anche gli USA. La crisi fu superata, ma non grazie a Francia e Inghilterra, sicché quella vicenda segnò il cambio di bandiera dell’imperialismo occidentale, che da allora sostiene con ancora più forza il proprio avamposto nel mondo arabo, ma con la bandiera a stelle e strisce.
A essere determinante nel configurare Israele quale patria nazionale esclusivamente del popolo ebraico, come stabilisce la Legge sullo Stato-Nazione approvata nel luglio 2018, e fare dell’essere ebreo un’identità che garantisce supremazia su altre persone, è stato il fondamentalismo.
Con questo termine si è indicato originariamente un fenomeno sviluppatosi in seno al cristianesimo statunitense a impronta protestante. Originatosi all’epoca della guerra di secessione, si rinfocolò dopo le Seconda guerra mondiale (1939-45). In realtà il fondamentalismo è una malattia di tutte le religioni, che consiste nell’irrigidimento in un’adesione intransigente ai principi fondamentali dell’ortodossia e si sviluppa di solito in presenza di tensioni prodotte da traumi e shock sociali. Come talune malattie possono comportare complicazioni capaci di portare alla morte, i fondamentalismi (che possono derivare anche da fedi non religiose ma ideologiche) possono degenerare in fanatismi e dare la morte se sfociano in terrorismo.
In Medio Oriente si scontrano due fondamentalismi, quello ebraico e quello islamico, che si incentivano a vicenda. Ne ha fatto e ne fa le spese Fatah, movimento politico laico e democratico che rivendica la Palestina in nome del Diritto.
Il fondamentalismo ebraico lo si può datare dal 70 dopo Cristo, anno in cui il Tempio di Gerusalemme fu distrutto dai Romani. Per quel che ci riguarda, basta risalire ad anni molto più vicini, cioè alla formazione di una corrente religiosa in seno al sionismo. Il quale era nato laico, come laico era il suo fondatore Theodor Herzl. Ponendosi l’obiettivo di costituire uno Stato per gli ebrei senza attendere la venuta del Messia, rappresentò una sorte di secolarizzazione dell’attesa messianica. Tanto che ebrei ortodossi e ultraortodossi considerarono il programma sionista come una sfida a Dio.
Nonostante la ferma posizione avversa dei loro rabbini molti ebrei ortodossi videro nel programma sionista l’anticipazione della redenzione messianica e vi aderirono con entusiasmo. Nacque così il sionismo religioso che si nutrì anche di acceso nazionalismo. Da lì al fanatismo il passo fu assai breve come frequentemente dimostrano i coloni degli insediamenti, nonché al terrorismo cui non poche volte ha fatto ricorso lo stesso Stato israeliano utilizzando raffinatissime tecnologie.
È appena il caso di sottolineare che l’ebraismo non va identificato con i suoi fondamentalismi e i relativi seguiti, come la religione musulmana non va identificata con i suoi fondamentalismi e tampoco con le loro degenerazioni fanatiche e terroristiche.
Il fondamentalismo islamico lo si data al 1928 con la nascita in Egitto dell’Associazione Fratelli Musulmani. Ve ne sono versioni diverse. Da esse sono derivati anche movimenti di fanatismo assoluto che sono ricorsi al terrorismo stragista come mezzo abituale di lotta. Ai nostri fini conviene soffermarsi su uno solo dei fondamentalismi islamici, su Hamas. Fondato nel 1987 con forte impronta religiosa e nazionalistica, si oppone all’occupazione israeliana con una strategia differente da quella di Fatah e con l’obiettivo di uno Stato islamico.
In questi intrecci di fondamentalismi e nazionalismi vanno individuati, a mio avviso, i fattori dello stravolgimento di Israele in Stato religioso per soli ebrei.
Gli opposti fondamentalismi si incentivano a vicenda, per cui Hamas, eccitando i fondamentalismi ebraici, ha in qualche modo contribuito anch’esso allo stravolgimento della natura di Israele, e non si può escludere che anche Fatah vi abbia influito, pur rivendicando legittimamente il diritto dei palestinesi sulla terra di Palestina, perché su di essa i fondamentalismi ebraici vantano l’esclusiva per lascito divino.
Appunto questo lascito è stato il principio ispiratore delle coalizioni che si sono succedute al governo di Israele, che hanno modificato Israele sino a farne uno Stato confessionale con la promulgazione della Legge dello Stato-Nazione e il trasferimento della capitale a Gerusalemme.
Non va trascurato che per conseguire tali risultati è stato necessario che morissero due premi Nobel per la pace: Rabin, per mano di un colono ebreo, e Arafat, per una malattia di cui si è molto scritto e parlato, e che venissero stracciati gli Accordi di Oslo di cui erano stati autori. Dopo di che il cammino verso la realizzazione del Grande Israele su tutta la Palestina sembrava inarrestabile.
L’era Netanyahu sembra però tramontare e Joe Biden ha inaspettatamente rilanciato la prospettiva di due Stati per due popoli. Nonostante le condizioni sul terreno non siano le migliori per attuarla, si può forse sperare che non siano i fondamentalismi a dire l’ultima parola?
Nino Lisi è membro della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese. L’articolo fa seguito a quello pubblicato sul n. 21 di Adista Segni nuovi