Già quarant’anni dalla tragedia di Alfredino Rampi, il bambino di sei anni che il 10 giugno 1981 cadde in un pozzo artesiano in quel di Vermicino, a pochi chilometri da Roma, generando un’attenzione spasmodica da parte dei mezzi d’informazione, con tanto di diretta no stop e visita del presidente Pertini sul luogo mentre la tragedia si compiva. Una tragedia, sì, perché purtroppo, nonostante gli sforzi disumani dei volontari e dei vigili del fuoco, non ci fu niente da fare: Alfredino morì a sessanta metri di profondità, al freddo, nel fango, solo e disperato. Nessuno riuscì a tirarlo fuori da quell’inferno e quella fu la prima volta che la televisione si occupò di una persona comune per un tempo interminabile.
Prima di Alfredino c’era stata la luna, fra il 20 e il 21 luglio del ’69, ma in quel caso si trattava di un evento di proporzioni planetarie. Alfredino, invece, non era nessuno, la sua famiglia non era nota, eppure quella volta il circo mediatico, rimasto orfano di una politica che appassionava meno di un tempo, dopo un decennio in cui era stata tutto, si concentrò su quello spiazzo di terreno e non spense le telecamere fino a quando non si ebbe la certezza che non ci fosse più nulla da fare. Per la prima volta, un dramma privato irruppe nelle nostre case e ci tenne con il fiato sospeso. Ci rendemmo conto, allora, della nostra fragilità, del nostro dolore comune, della nostra empatia, della nostra capacità di provare sentimenti collettivi ma anche del fatto che stesse iniziando un tempo nuovo e diverso. Al termine di un decennio in cui la politica, come detto, aveva egemonizzato ogni discorso e le ideologie avevano tracimato, fino ad annichilire, talvolta, la dignità stessa degli esseri umani, adesso ci appassionavano le piccole storie, le vicende solo apparentemente normali. Era cominciata la stagione del reality vent’anni prima del Grande Fratello e trent’anni prima del dilagare dei social. Non potevamo saperlo all’epoca, ma oggi ci rendiamo conto che Alfredino Rampi, dal punto di vista mediatico, ha tracciato un solco e segnato un prima e un dopo.
L’episodio di questo bambino introdusse, infatti, nel nostro vivere quotidiano un dolore diverso rispetto al passato: il dolore di un singolo, la sofferenza di un innocente che stava tornando a casa ed era ignaro del destino di morte che lo attendeva. Alfredino non aveva un’ideologia, non aveva un pensiero politico, non era un terrorista o il protagonista di un evento; era semplicemente un bambino di sei anni che stava giocando, vittima di un buco che non avrebbe dovuto esserci e di troppi errori e troppe improvvisazioni nei soccorsi, anche se non sta certo a noi giudicare l’operato di chi ha fatto di tutto per salvarlo.
Di quelle ore d’angoscia, di quei giorni senza tregua, di quella sofferenza corale e dell’inizio della stagione in cui anche le persone “normali” sono approdate sul piccolo schermo per non andarsene più conserviamo le parole disperate di Alfredino che chiede salvezza e l’immagine del presidente Pertini che parla con lui provando a rassicurarlo. La dolcezza, il raccoglimento, le speranze e lo strazio di quel magnifico presidente partigiano furono anche i nostri sentimenti. Poi fu il buio, l’addio, il dilagare della volgarità mediatica e la perdita del senso della misura e del buongusto. Quarant’anni dopo è opportuno riflettere su ciò che siamo diventati.
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