Virus antropocene e reincantamento del mondo

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Partendo dalle misure straordinarie poste in essere dal governo italiano, come dai governanti di innumerevoli altri stati ormai, primo fra tutte il lockdown del 9 marzo 2020, gli autori conducono una dettagliata analisi dello stato attuale della società italiana. Un confronto con quei sistemi da sempre etichettati, troppo frettolosamente, primitivi. E uno sguardo al futuro che deve passare, senza nostalgia, da un passato più o meno recente ma sempre importante. Riflessioni che vogliono anche essere un monito per i giovani, gli unici sui quali si potrà veramente contare, nella speranza che trovino quanto prima la coesione e la consapevolezza necessarie.

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa ma continua ad avere una visione distorta del mondo.

Sottolineano gli autori come una convivenza utile tra gli esseri umani sia in realtà possibile solo a patto di realizzare anche e in primo luogo una convivenza utile con la natura. Aspetto questo da sempre trascurato dall’Antropocentrismo imperante nella società dei civilizzati.

A parte il coprifuoco durante la seconda guerra mondiale, la società italiana non aveva mai avuto esperienza diretta di provvedimenti così drastici e restrittivi come una chiusura totale. Per noi le chiusure o sospensioni sono abitualmente ascrivibili a periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… in sintesi sono una pausa, uno stand by dalla routine. In genere atteso, gradito e piacevole.

L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli Ebrei sono “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà (la terra, la foresta, …) da cui gli esseri umani ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza il lavoro degli uomini.

Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile.

Ciò che manca alla nostra civiltà, ci ricordano gli autori, è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita “il male dell’infinito”, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena.

Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno loro vedere la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.

Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti.

Remotti non esclude la possibilità di acquisire una visione critica e lungimirante, ma in mancanza di un’autentica sospensione culturale non è detto che alla visione critica faccia seguito una corrispondente azione modificante. Il lockdown è un arresto non voluto, non programmato. Un arresto dal quale si ha solo fretta di uscire per ritornare quanto prima alla normalità.

Virus e confinamenti hanno una lunga storia nell’umanità, anche recente. Basti pensare all’Aids, all’ebola o all’epidemia di morbillo del 2019. Favole sottolinea le particolarità di Sars-Cov-2, le quali sono di essersi diffuso globalmente con una velocità straordinaria ma, soprattutto, di aver sovvertito un diffuso immaginario che lega epidemie a povertà.

Il coronavirus ha fatto irruzione in un mondo che si riteneva immune da questo tipo di attacchi. Il mondo occidentale, convinto di appartenere a una modernità potente ed efficace contro le malattie epidemiche, è stato costretto a una rapida contrazione degli spazi.

Quanto però, si chiede l’autore, la sospensione da coronavirus ci ha fatto riflettere davvero su come eravamo e su come vorremmo essere in futuro.

Proprio questo virus, che dovrebbe farci sentire anche biologicamente appartenenti a una comune umanità, ha invece ravvivato il focolaio delle politiche nazionaliste e sovraniste.

Il senso di impotenza che tutti abbiamo provato dopo le prime chiusure è, nella dettagliata ricostruzione fatta da Favole, lo stesso che tanti esseri umani provavano ben prima dell’arrivo del coronavirus, davanti ai mille confini reali e simbolici che li separavano dalle mete desiderate. Perché la verità è che mentre noi occidentali, per decenni, abbiamo teorizzato le meraviglie e l’incanto di un mondo aperto e globalizzato, altre umanità sono vissute in un perpetuo confinamento.

E, senza dover guardare neanche troppo lontano, nei giorni più bui, mentre i reparti di rianimazione si saturavano tutti ci siamo chiesti chi avrebbe avuto, prima di altri, il diritto a salvarsi.

Questo perché la condivisione, la solidarietà, il legame sociale non sono mai definitivamente garantiti nelle faccende umane.

Il lockdown ci ha fatto riflettere sul fatto che una società immaginata come un insieme di individui isolati, ciascuno dei quali alla ricerca spasmodica del proprio interesse personale, è un’aberrazione e non un ideale a cui tendere.

I lunghi mesi di lockdown hanno confermato appieno quello che gli studiosi di antropologia definiscono reincantamento del mondo, un ritorno alla religiosità anche nelle sue forme integraliste e intolleranti, un diniego del mito della società secolarizzata che ha pervaso le generazioni degli anni Sessanta e Settanta.

Credenze, riti, utopie, religioni, leader carismatici, leggende metropolitane… affollano una modernità che non si rappresenta più come “secolarizzata”. In questo quadro Favole colloca anche la rivalutazione dei riti collettivi.

Il coronavirus, nei momenti di massima aggressività, impedisce anche la celebrazione dei riti funebri.

Chi avrebbe mai pensato che in Italia – e in molte altre parti del mondo globalizzato – potesse accadere una cosa del genere nel XXI secolo?

Eppure per l’autore non si tratta di un qualcosa di davvero così imprevisto e imprevedibile. I riti impossibili e i corpi scomparsi dell’11 settembre, così come i morti senza volto del Mediterraneo, avrebbero dovuto dare una prima scossa, un avvertimento potente a una contemporaneità accecata e avviluppata nella sua bolla di benessere, circondata da povertà e disperazione crescenti.

Ed ecco che Favole di nuovo si chiede se i riti di emergenza della Covid-19 lasceranno tracce nell’umanità del futuro.

L’impressione però è che, ancora una volta, la modernità consista nella fretta di archiviare e rimuovere la memoria traumatica, tornando alle spiagge e ai centri commerciali.

Forse, come evidenziano gli studi di Giovanni Gugg, siamo incapaci di “tornare al futuro”, cioè incapaci di immaginarci diversi, costruendo creativamente un futuro a partire da una memoria “buona” –  e non identitaria – del passato.

E forse questa fretta di ritornare alla normalità è motivata anche da un altro tipo di paura, magari inconscia. Il confinamento è una pianta robusta dalle radici profonde che, spesso, è stata nutrita, più che da timori e paure di virus, da operazioni di natura politica. Senza neanche girarci troppo intorno, sono stati diversi gli intellettuali che in questi mesi ci hanno messo in guardia contro il pericolo che il virus diventasse un pretesto per una riduzione delle libertà ben oltre la pandemia. Per ragioni politiche, l’emergenza rischia spesso di divenire quotidianità. Per contro, la “liberazione” dai confinamenti non può e non deve essere motivata da mere ragioni economiche, a scapito della salute dei cittadini.

Letto nei termini della crescita economica, lo sviluppo non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato. Il problema, nell’analisi di Marco Aime, non sta solo nella semplice adozione indiscriminata di tale modello, ma nel pensarlo come naturale, ineluttabile, quasi un destino cui è impossibile sfuggire.

Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità è dato dal fatto che, nonostante i ripetuti fallimenti, la crescita delle diseguaglianze e la sempre più evidente crisi ambientale, si continua imperterriti nella stessa direzione.

L’obiettivo di elevare tutti gli esseri umani al tenore di vita degli occidentali è, conclude Aime, materialmente irrealizzabile. Eppure, per sostenere la fede nell’inevitabilità del progresso, inteso come aumento di produzione e accumulo di beni, occorre fare “come se” tutto ciò fosse possibile.

Lo stesso Gandhi sembrava essere giunto a conclusioni simili allorquando affermava che il mondo non può sopportare che l’India diventi come l’Inghilterra.

Aime invita a osservare con sguardo critico le più importanti rivoluzioni dell’epoca moderna. Si noterà allora che, nella maggior parte dei casi, lo sforzo più incidente è stato nel distruggere l’esistente più che nel progettare un futuro vero e proprio. Si impone dunque una nuova prospettiva che, per essere realizzata, necessita di due elementi: il primo è una nuova visione del futuro, un progetto che guardi avanti e non solo all’orizzonte ristretto del domani; il secondo è una presa di coscienza collettiva di fare parte di una specie in pericolo.

La pandemia ha nesso a nudo l’estrema fragilità del nostro sistema: pochi mesi di chiusura e di rallentamento lo hanno messo in ginocchio. E questo, per Aime, è segno evidente del fatto che non siamo stati capaci di prevedere un domani incerto, che non abbiamo scorte di alcun tipo, nessun ammortizzatore. Abbiamo costruito un sistema fondato sull’oggi. E allora bisogna chiedersi quale domani potrà mai esserci per una società che non pensa al futuro.

La politica con tutti i suoi partiti viene direttamente chiamata in causa per la sua pressoché totale mancanza di prospettive e di progetti di ampio respiro.

Senza un progetto futuro e neppure una chiara conoscenza del passato, ci si affida a qualcosa di atavico, che si perde nella nebbia dei tempi, una sorta di mito fondante: l’identità, corroborata dalla confortante metafora delle radici e del primato autoctono.

Resi ciechi dal cono d’ombra creato da questa corsa inarrestabile, abbiamo smesso di pensare a quale sia il traguardo e quale il senso della nostra corsa. Ecco perché gli autori ritengono necessario sviluppare una cultura nuova sull‘Antropocene e a farlo dovranno essere i giovani, spetta loro infatti l’arduo compito di cambiare la rotta.

Luciano Gallino ha messo in luce come, nella nostra epoca, sembrino scomparse le classi sociali che avevano caratterizzato la politica e la società del Novecento, ma in realtà a venire meno è stata soprattutto la coscienza di classe, la percezione di appartenere a una comunità di intenti, fondata su una base comune.

I giovani che si sono mobilitati seguendo Greta Thunberg, oppure il movimento delle Sardine sono esempi, seppur circoscritti, di mobilitazioni che hanno auspicato e messo in atto azioni di mobilitazione e protesta “dal basso” ed entro una classe prevalentemente giovanile, contro il dilagare del linguaggio d’odio. Ed è da essi che, per Aime, bisogna partire o ripartire. Perché in una crisi di pensiero, come quella che attraversa il presente, l’unica soluzione è ricominciare a pensare al futuro, che sia però un domani comune.


Bibliografia di riferimento

Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020

Gli autori

Marco Aime: professore di Antropologia culturale all’Università di Genova.

Adriano Favole: insegna Cultura e potere e Antropologia culturale presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino.

Francesco Remotti: professore emerito all’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei.


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