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Venezuela VS. Colombia: guerra in Sudamerica?

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Più ancora dei bombardamenti aerei e delle continue sparatorie tra reparti militari lungo il fiume Arauca che marca la frontiera meridionale tra i due paesi, i morti, i feriti e nuovamente migliaia di profughi in fuga, due dati hanno innescato l’allarme alle Nazioni Unite (non ancora -non attivamente- all’Organizzazione degli Stati Americani, l’OSA, affievolita da una conduzione che ha perduto prestigio e aumentato i contrasti interni). Uno, immediato, è che l’ipotesi di una guerra non viene affatto esclusa da più di un esponente in entrambi i governi, convinti di potervi trovare se non la soluzione, quanto meno un’utile manovra diversiva rispetto ai gravissimi problemi interni che li sovrastano. L’altro, ormai simbolico, ma sempre presente nei rispettivi orgogli nazionali, è che quasi cent’anni fa e proprio qui si frantumò il progetto bolivariano della Grande Colombia.

 

L’Unione del Sudamerica vagheggiata dal Libertador è ormai ingiallita retorica nel Venezuela di Nicolás Maduro ridotta a miserrimo simulacro di quel sogno grandioso; celebrata ritualmente o rinnegata del tutto nell’insieme del subcontinente. Vivi rimangono i problemi irrisolti: le rivalità personali tra i diversi caudillos, mai storicamente estinte; così come quelli oggi corrispondenti ai conflitti d’interesse che nell’Ottocento opposero artigiani e produttori protezionisti ai latifondisti schiavisti e liberoscambisti. Ne riconfigura la natura il continuo contrabbando-formica che nel periodico capovolgersi dei ruoli (anni fa erano i colombiani che andavano ad acquistare prodotti a buon mercato sull’opposta sponda venezuelana), vede adesso i venezuelani varcare come possono il fangoso Arauca per andarsi a procurare carburante, latte, uova, carne sul versante colombiano.

 

Un ologramma ferocemente realistico retrotrae indietro di anni lattuale situazione lungo una frontiera di fatto incontrollata, incontrollabile per la sua estensione attraverso una natura tanto spettacolare e affascinante quanto selvaggia. Avevo potuto raggiungere la zona in elicottero grazie alla cortesia dell’allora presidente della Colombia, Andrès Pastrana, un tempo anch’egli giornalista (una conoscenza ereditata dal collega Franco Catucci che godeva della sua assoluta stima e amicizia). In quel momento era anche un confine tra il trascendentale e il profano: gli indios betoyes vi celebravano i propri riti occulti; i narcotrafficanti ci trattavano le foglie di coca con il cherosene per produrre cocaina. Restai una notte in attesa con la pattuglia del DAS (l’FBI colombiano) per sorprendere l’aereo che presumevano dovesse venire a caricarla.

 

All’alba, un rogo improvviso svettò sulla giungla. Gli agenti si convinsero che non c’era più niente da aspettare, dovevamo invece allontanarci in fretta. Secondo la loro lettura, l’incendio era stato provocato da un’incursione di guerriglieri sulla “cucina” dei narcos. La zona era infestata da combattenti delle FARC e dell’ENL, in guerra permanente con i trafficanti per la disputa dei copiosi profitti del traffico di stupefacenti, che incrociava anche quello delle armi. Troppo pericoloso rischiare d’incontrare gli uni o gli altri lungo i molti chilometri di cammino fino alla radura in cui era stato parcheggiato l’elicottero, con la protezione dei 5uomini della nostra retroguardia. Tirammo il fiato fino a raggiungere il fiume. Né i guerriglieri e ancor meno i narcos si sarebbero esposti allo scoperto. Sapevano bene tutti che l’incendio aveva risvegliato l’intera foresta. Senza tuttavia interrompere l’andirivieni tra le opposte sponde: troppi testimoni in circolazione.

 

Sempre parziale e precaria, dunque, la pace in questa punta di Sudamerica è stata più aspirazione (quando c’è stata) che realtà, su entrambi i lati della fragilissima frontiera. Il regime di Maduro e dei suoi generali ne ha consumata la sua parte nella tragica crisi interna di legittimità democratica, prima ancora che economica e politica. E ormai si dibatte in un vicolo cieco in cui accumula privazioni e rischi per tutti. Dall’altra parte, la Colombia di Ivan Duque ha sabotato il disarmo delle Fuerzas ArmadasRevolucionarias (FARC), faticosamente raggiunto dal suo predecessore Juan Manuel Santos dopo mezzo secolo di guerra interna, lutti infiniti e danni materiali immensi. Con il risultato di interrompere il ciclo di crescita economica e accendere una protesta che invade le strade delle città, mal trattenuta dalla virulenza del Covid. A tal punto che l’ex capo di stato Alvaro Uribe, mentore politico di Duque, incita l’esercito a reprimerla con le armi.

 

Milioni di venezuelani e colombiani vivono da sempre lungo questa frontiera che alternativamente distribuisce loro vita e morte, naturalizzando conflitti, traffici illegali, violenze d’ogni genere nell’esistenza del giorno dopo giorno. Niente arresta la risacca migratoria dei bisogni e delle speranze, né gli incredibili commerci che vi vegetano dentro e tutt’attorno. Al più, i boati di un bombardamento o il crepitio di una mitragliatrice sospendonol’intenso reticolo di via-vai giusto il tempo necessario a localizzare l’immediato pericolo per sottrarvisi. Il ponte per il quale transitano i viaggiatori forniti di documenti appare disabitato, tutti a terra. Le barche dei clandestini accelerano verso i rifugi più vicini. Mentre a Bogotà e a Caracas, tra i palazzi di governo e i tavoli degli stati maggiori militari vanno valutandoprofitti e perdite di un possibile precipitare in guerra aperta.


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