Il 14 maggio ricorre il 73 anniversario della nascita dello Stato di Israele, ma quest’anno c’è poco da celebrare. La festa dell’indipendenza coincide con un’esplosione di violenza, non solo militare, che pervade tutta la società comprese le comunità che convivono nelle cittadine miste come Lod, Aco e Ramble. Se in 73 anni la popolazione di Israele non ha vissuto un solo giorno di pace, evidentemente siamo in presenza del fallimento del progetto politico che ha guidato la nascita dello Stato d’Israele ed il suo percorso storico fin qui realizzato. Un percorso storico che si è sciolto di ogni ambiguità anche da un punto di vista formale con la legge approvata il 19 luglio 2018 con la quale è stata definita la natura dello Stato ed i suoi caratteri fondamentali. Abbandonando ogni remora, sotto la guida di Netanyahu, Israele si è autodefinito come uno Stato etnico-religioso, nel quale l’autodeterminazione “è esclusivamente per il popolo ebraico” e sono stati riconosciuti gli insediamenti dei coloni nei territori occupati come “valore nazionale”. In altre parole è stata “costituzionalizzata” una situazione di discriminazione e di umiliazione del popolo palestinese perseguita con accanimento e con un ventaglio di misure di carattere militare, amministrativo e legislativo. Negli ultimi tempi questa situazione di oppressione è stata resa ancora più dura. Il 27 aprile è stato pubblicato un rapporto di 213 pagine di Human Rights Watch, intitolato “Una soglia varcata. Autorità israeliane e crimini di apartheid e persecuzione”, in cui viene descritto dettagliatamente il trattamento umiliante e discriminatorio riservato da Israele ai palestinesi nella Cisgiordania occupata, nella Striscia di Gaza bloccata e nell’annessa Gerusalemme est, oltre che agli arabi-israeliani.
Nelle ultime settimane a Gerusalemme si è scatenata una repressione durissima contro la protesta spontanea che si opponeva alle deportazioni e agli “sfratti etnici” dal quartiere di Sheikh Jarrah della popolazione Palestinese, che lì vive da decenni. Ma la provocazione ancora più grave è stata l’irruzione dell’esercito israeliano nella spianata delle moschee. In Italia negli anni del confronto politico rovente fra comunisti e democristiani, veniva agitato lo spettro dei cavalli dei cosacchi che si abbeveravano in piazza San Pietro. In politica i simboli sono importanti e quando colpiscono l’immaginario religioso incidono profondamente nell’identità dei popoli. L’attacco alla moschea di al-Aqsa è stato vissuto dalla popolazione mussulmana come una provocazione profonda. Ciò ha consentito ad Hamas di ergersi a protettore dei palestinesi e di tutti i mussulmani, inviando un velleitario ultimatum ad Israele a cui hanno fatto seguito una pioggia di razzi lanciati da Gaza e i violentissimi bombardamenti delle forze armate israeliane. Al momento non sappiamo se sarà negoziata una tregua o se Israele provocherà un altro bagno di sangue lanciando un’operazione di terra. Quel che è certo è che nessuna operazione militare potrà porre fine al conflitto e che la straordinaria potenza militare di Israele non potrà garantire al popolo israeliano di vivere in pace. Quando scoppiò la prima intifada nel 1987, seguì una durissima repressione. I soldati israeliani rompevano le ossa delle braccia ai ragazzini di 15/16 anni catturati per “insegnare” loro a non lanciare più le pietre. L’allora ministro della difesa Yitzhak Rabin, commentò la repressione osservando che se i palestinesi si ribellavano solo loro avrebbero sofferto. Purtroppo Rabin, ucciso da un colono il 4 novembre del 1995, sperimentò su sé stesso che la violenza contro gli altri si ritorce anche contro di noi. Non è possibile separare il destino di due comunità umane che vivono sotto lo stesso cielo, nel senso che si può infliggere dolore all’altra comunità restandone noi immuni.
L’attacco con razzi compiuto da Hamas è doppiamente sbagliato, non solo perché sul terreno della violenza bellica Israele è mille volte più forte mentre sul terreno politico è un “assist” per consentire ad un leader in crisi come Netanyhau di mantenersi al potere, ma soprattutto perché è un’azione totalmente iscritta nella “pedagogia del dolore”. Cerca di infliggere delle sofferenze ad Israele per “insegnargli” il rispetto dei diritti del popolo palestinese. Senonchè l’effetto è quello opposto: più violenze si commettono e più diventa profondo l’oceano di odio che divide le due comunità; più diventa difficile aprire la strada a un percorso di riconciliazione fra i due popoli. Il conflitto che da quasi un secolo dilania la Terrasanta è la prova più tangibile del fallimento di ogni politica che, confidando sulla superiorità delle armi, pretenda di imporre la pace senza costruire la giustizia.
Non c’è pace senza giustizia.