“Burning- L’amore brucia”, di Lee Chang-Dong, Corea del Sud, 2019
L’Estremo Oriente, qui la Corea del Sud, si conferma campo di azione privilegiato della Storia del cinema contemporaneo. Film estraniato ed estraniante, Burning mette insieme catarsi e lotta di classe, redenzione ed esistenzialismo, natura e desolazione industriale, perdizione, senso della vita, e silenzio della fine di un mondo abbandonato a se stesso. Il tutto in un vortice di perfezione immaginifica che rimanda anche ad Antonioni e Dreyer. Opera finale che apre nuove strade all’espressione cinematografica intesa come mezzo per raccontare l’irraccontabile, l’impalpabile, ciò che sfugge alla nostra stessa essenza percettiva. Sguardi che si interrogano e ci interrogano su tutto senza trovare alcuna risposta, con la sola soddisfazione, la più grande, dell’esserci nel chiedersi, anche vanamente, cosa siamo e perché siamo…
Alle radici dell’Uomo
“Bella e perduta”, di Pietro Marcello, Ita, 2015.
La vicenda reale di Tommaso Cestrone, immolatosi nel tentativo di salvare dall’incuria la Reggia di Carditello, diventa occasione per parlare del rapporto imprescindibile uomo-natura, oramai in via di estinzione. Le avventure del bufalotto Sarchiapone, novello Balthazar bressoniano, cartina di tornasole dell’insensibilità umana, si fondono con quelle del metaforico Pulcinella, la cui funzione è quella di legare il mondo dei vivi a quello dei morti, nel vano tentativo di mettere insieme l’imperdibile tradizione dei padri e il presente irriverente. A completare questa compagnia della speranza, che non vuol farsi vincere da niente e da nessuno, è il pastore poeta Gesuino, semplice e buono, che ci conduce, significativamente, fino alle viscere delle origini dell’uomo (è anche un “etico” tombarolo). Tutti e quattro si perderanno nel processo inarrestabile della Storia e del quotidiano, ma regaleranno, seppure per contrasto, allo spettatore una lezione di vita difficile da dimenticare. Cinema che si fa testimonianza, baluardo della conoscenza mai tradita da interessi e mutazioni antropologiche, il film di Pietro Marcello è l’ultimo erede possibile della teoria rossellianiane della realtà colta nel suo stesso farsi. Del Pasolini cantore di un mondo destinato alla sua scomparsa. Del Bresson struggente ed ineffabile interprete di una reificazione che veda l’uomo prendere ad esempio la vita “sacra” delle bestie.
Lo specchio della verità
“Il posto delle fragole”, di Ingmar Bergman, Sve, 1957.
Il viaggio del vecchio Prof. Isak Borg è insieme metaforico e reale. Sta per andare a ritirare un premio accompagnato in auto dalla nuora, e si addormenta. Sogna la morte, che come in un terribile quadro di Dalì viene a prenderlo. Si sveglia e si ritrova nei luoghi della sua giovinezza, rievocata, come in un ideale montaggio parallelo, tra sogno e realtà. Il ricordo dell’amore mai detto per la cugina Sara, intenta a raccogliere le fragole per lo zio Aron, si muove fra poesia, impotenza e rimpianto, a connotare il senso stesso della vita legato al circolare e chiuso spazio del tempo. Ogni cosa ci sembra essere accaduta soltanto ieri perché filtrata dall’oggi che sempre rielabora, illudendoci, per farci sopravvivere, che tutto sia ancora lì intatto. La verità, l’unica, è quella del presente, che invade il passato e ce lo fa, necessariamente, rimpiangere o respingere. I giocattoli dell’infanzia ma anche l’immagine insostenibile della defunta moglie, che lo tradisce per vendicarsi della sua aridità mentale, segnano per il vecchio Isak l’approdo naturale all’ultima esperienza, quella in cui la ragione stessa dell’esistenza si comprende, dolorosamente, solo alla fine. Pietas, rabbia, tenerezza e sgomento ci legano allo sguardo di chi è prossimo all’exitu. La vita si vive, la morte la spiega. Tutto Bergman in un solo film.