Come erano strani quei testi per noi adolescenti, un po’ paninari che leggevamo poco e vivevamo seguendo la moda dell’edonismo anni Ottanta.
E poi quel “cinghiale bianco” di cui il Maestro auspicava il ritorno, cosa voleva dire?
Passavano molto in radio quei pezzi molto criptici dove si parlava di abusi di potere, di serenate all’istituto magistrale e di bandiere bianche e si cantava “cucurucucu paloma” (e noi non capivamo i riferimenti) e poi qualche video nelle prime puntate di Videomusic. Così associammo il “cinghiale bianco” a quello strano tipo, molto serio, con gli occhiali scuri e una massa di capelli ricci, magro magro che si muoveva con lo stesso ritmo delle mani e della testa.
Poi crescemmo e cominciavamo a leggere testi più importanti, filosofia e letteratura, così quel mondo strano, quei riferimenti così colti, l’oriente, la cultura classica che si mescolava con atmosfere oniriche e surreali, ci catturarono sempre di più e le nostre camerette si arredavano di vinili con copertine scure con animali e simboli esoterici, o chiare con palme in bianco e nero. Eravamo entrati nel suo mondo, in quell’universo infinito, lontanissimo e poi, a tratti, vicinissimo. Una vera ipnosi, un effetto allucinogeno fatto di ritmi nuovi, sonorità mescolate, orchestre sinfoniche e accordi swing.
Era il mondo di Franco Battiato, un artista così grande, così diverso da tutti gli altri, così unico che ci spingeva a conoscere, a seguire la sua perenne ricerca diretta verso strade mai percorse, strade sulle quali lui camminava con l’apporto del filosofo che ha scritto per lui i più bei testi, Manlio Sgalambro, e che andavano verso l’esoterismo, la mistica sufi, la teoretica filosofica, la meditazione orientale, la spiritualità cristiana.
Scenari e paesaggi meravigliosi ci ha aperto Franco Battiato, ci ha fatto compiere voli imprevedibili insieme a uccelli migratori con “aperture alari che nascondono segreti di questo sistema solare”; ci ha portato a San Pietroburgo, sulla Prospettiva Nevskij, a Berlino, ad Alexander Platz, in Persia, in Tunisia, sui treni per Tozeur, e poi sull’Etna, la sua terra (la mia terra, ndr). Alla Sicilia aveva dedicato tempo, amore e un attaccamento radicale, lui così alto, così magro da sembrare etereo, affondava le sue radici in questa madre arsa ma fertile, alle pendici del Mongibello, dove era nato e dove ha chiuso gli occhi il 18 maggio, all’alba.
La Sicilia araba, normanna, bizantina, carica di suoni nei dialetti e di etimologie stravaganti, una terra così colta che nemmeno noi siciliani lo sappiamo, era il suo incubatore di progetti, di viaggi, di sperimentazioni artistiche, musicali, sensoriali. Milo era il suo locus amoenus, poco più di un villaggio in mezzo ai castagneti e ai vigneti, fuori dai luoghi comuni della Sicilia folklorica e turistica, sotto il vulcano e davanti al mare, un mare blu cobalto con un grande orizzonte, un cammino verso l’infinito.
Fino a pochi anni addietro, nelle sere d’estate, si poteva incontrarlo a passeggio davanti all’unica piazza; qualche anno più indietro si potevano incontrare insieme lui e quell’altro gigante (piccolo) che era Lucio Dalla.
Lo ascoltammo in un concerto che ci parve “sacro” qualche anno fa nel tempio della lirica, il Teatro Massimo Bellini della sua città, Catania. Fu un momento catartico, che lasciò gli spettatori turbati ma leggeri: lui, così alto, immobile, seduto in mezzo al palco su una grande panca ricoperta di tappeti persiani, un’orchestra d’archi che lo accompagnava.
Ci capitò di rivederlo pochi anni fa, una delle ultime esibizioni pubbliche, in una piazza molto grande, in un paese a metà strada tra la città e la sua Milo, a Viagrande. Quella volta la commozione prevalse perché era già evidente la sua fragilità, qualche parola non era più chiara, i movimenti erano lenti. Quella piazza piena cantava i suoi pezzi, il suo sorriso era malinconico, quel concerto lo aveva “regalato” al suo pubblico. Una grande emozione in una calda serata estiva.
Non amava essere chiamato Maestro, lui che lo era, davvero; non un cantautore ma un musicista, uno dei più grandi del Novecento. Aveva una voce rauca, flebile, poco melodiosa ma l’unica che si plasmava su quelle rime talmente insolite, su metafore e sinestesie morbide come i suoni del dialetto siciliano (Stranizza d’amuri), o come le spirali dei “dervisci che girano sulle spine dorsali”, melodie che accompagnavano narrazioni ardite, ermetiche, sinfoniche e poi, d’un tratto, pop e rock and roll.
Era tutto diverso il panorama di Battiato, era invenzione e fantasia, era ironia e gioco, scoperta e malinconia. Si sentiva diverso Franco Battiato, rispetto a questo mondo banale, superficiale, omologato. Lo aveva cantato, insieme a Luca Madonia – altro siciliano poco compreso – a Sanremo: “vivo, nei panni di un alieno”.
Non era un solitario, amava circondarsi di amici e si era sempre arricchito di sodalizi importanti: oltre Sgalambro, il violinista Giusto Pio, Milva, Giuny Russo, Morgan, Alice, Luca Madonia e tanti artisti, scrittori, padri spirituali. Predicava la pace tra i popoli, tra le culture e le religioni in quell’immenso sincretismo che alimentava la sua ispirazione e la sua anima. Ci aveva consegnato un manuale d’amore, un piccolo cantico che ogni uomo o donna che abbia amato ha fatto suo e ha desiderato di sentirsi dire: una promessa di protezione e cura (teni a cura si dice in siciliano, fai attenzione, abbi cura, proteggi).
A lui, che diceva che la morte non esiste, noi diciamo che resterà con noi, a lungo, per tutto quello che da lui abbiamo imparato.